Il tema sembra impopolare, ma difendere la prescrizione non significa difendere l’impunità: in un sistema liberale che voglia tutelare il patto sociale tra l’individuo, la comunità e lo Stato, le tutele all’interno del processo penale non sono mai troppe, come confermato dallo straordinario lavoro dei Padri costituenti.

Per sostenere la cancellazione della prescrizione alcuni commentatori – anche illustri – indebitamente si riferiscono a un argomento squisitamente territoriale, dimenticando che l’Italia è l’unico Paese al mondo che fonda – ancora oggi – il proprio sistema penale su un codice pre-repubblicano, voluto nel 1930 dal regime fascista, un codice penale Stato-centrico, che parte infatti dalla difesa della personalità dello Stato e che tutela il bene “vita” dopo oltre 300 articoli. Nonostante le numerose modifiche additive e modificative che hanno garantito la sopravvivenza di questo codice, restano le sue specificità stridenti rispetto all’attuale ordinamento costituzionale e agli odierni orientamenti di politica criminale.

Pur tuttavia, la prescrizione fu inserita già nel codice fascista perché sin da allora si comprese la necessità di bilanciare la pretesa punitiva dello Stato e l’effettività dell’allarme sociale causato dal fatto di reato. La prescrizione è dunque una garanzia indefettibile per una società democratica e per uno Stato di diritto, scolpita fra i capisaldi della nostra Costituzione.

Andando con ordine e partendo dalla fine: la prescrizione è servente alla funzione pubblica ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione. Cancellarla in ragione di una – solo presunta – maggiore efficienza dei processi penali comporterà un innegabile “prolasso” processuale in netta antitesi rispetto alle coordinate volute dal legislatore costituzionale del 1999, allorquando ha elevato a principi inderogabili di rango costituzionale sia il giusto processo, fondato sull’effettiva capacità dimostrativa della pretesa accusatoria del pm, sia la ragionevole durata, senza la quale si allenterà la tensione sociale sul disvalore penale della condotta.

La prescrizione è, poi, servente all’individuo, stanti il secondo e il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione. Mentre dalla considerazione di non colpevolezza discendono numerosissimi corollari relativi al rapporto verità storica/verità processuale, al rapporto pm/giudice e al “sacrificio del giudicare” (come lo definì Leonardo Sciascia), così implicando l’illegittimità di congelare sine die la prescrizione e, di conseguenza, di mantenere un presunto innocente “eternamente giudicabile”; dal principio di rieducazione della pena discende la necessità costituzionale che la sanzione penale punti al recupero e alla risocializzazione del condannato: è tipico di uno Stato illiberale punire una persona dopo tanti anni dalla commissione del fatto di reato.

È giusto che la potestà punitiva dello Stato abbia un tempo, un limite, eccettuati i casi di crimini gravissimi per i quali si prevede un tempo più ampio o, addirittura, la imprescrittibilità, in modo che siano perseguibili in ogni tempo. Uno Stato liberale punisce i colpevoli per risocializzarli e non per vendetta.

Il diritto di difesa previsto dall’articolo 24 della Costituzione rappresenta, inoltre, l’architrave del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza perché, vista la sua inviolabilità, prelude il rispetto di tutte le garanzie e destina il doveroso equilibrio in quel patto sociale fra individuo e collettività messo in crisi dal processo penale. E, per questo, una difesa che possa dirsi efficace ed effettiva se, da un lato, non può essere compressa dal tempo, dall’altro deve esplicarsi in modo da verificare il rispetto dell’onere della prova e fronteggiare le distorsioni di un sistema che, gestito dagli uomini e non da superuomini o esseri superiori, è fallibile.