Pene esemplari, durissime. Buttate la chiave. Chiudeteli in cella per sempre. Gridavano i giustizialisti e i forcaioli sempre pronti ad aizzare l’opinione pubblica e a fare i processi sui social media e poi nelle aule. Successe anche per la vicenda del rider Gianni Lanciato, aggredito da un gruppo di ragazzini a Calata Capodichino la notte del 2 gennaio 2021. Lo picchiarono e gli rubarono il motorino. Una scena ripresa dallo smartphone di un residente che ha fatto il giro del web. Una scena sicuramente terribile, un atto grave.

Ma il punto è sempre lo stesso: il carcere serve per rieducare o per punire e basta? A quanto pare il giudice ha scelto di credere nella prima opzione. A rivelarlo il legale dei tre minorenni che quella notte presero parte alla rapina. «Dopo oltre un anno di battaglie la Corte d’appello per i minorenni ha concesso ai tre ragazzini il beneficio della messa alla prova – fa sapere l’avvocato Luca Mottola -. Fin dall’inizio ci abbiamo creduto solo noi difensori, che abbiamo dovuto sopportare il peso dell’indignata opinione pubblica animata dalle solite anime giustizialiste (il vero veleno di questa città)».

E così se in un primo momento i tre minori erano stati condannati dal giudice del tribunale dei Minori di Napoli a 4 anni e 8 mesi di carcere, adesso la pena è stata ridotta ed è stata scelta la strada della messa alla prova. I tre ragazzini dovranno restare in una comunità per 2 anni e 6 mesi e sono tutti già inseriti nel mondo lavorativo. «Un’altra vita è possibile, basta aiutarli, seguirli e non giustiziarli». Ma il giustizialismo la fa da padrone in questo Pese sempre pronto a condannare e mai a indagare le motivazioni, i luoghi nei quali sono nati questi ragazzi, le famiglie. «Dei quattro ragazzi minorenni, tre sono figli affiliati al clan Di Lauro, fin da bambini hanno respirato quell’aria – racconta l’avvocato Mottola – Il mio assistito aveva sedici anni all’epoca dei fatti, il padre è entrato in galera quando aveva due mesi ed è stato dodici anni in cella. È un ragazzino che è cresciuto vedendo il padre solo ai colloqui in carcere». Il giovane ha passato sei mesi nell’Istituto minorile di Airola.

«Mi chiamava quasi tutti i giorni in lacrime – racconta Mottola – piangeva al telefono con me perché mi diceva di essere circondato da giovani che avevano commesso reati gravissimi e lui era dentro per una rapina che, per quanto odioso sia come reato, non è uno di quelli per cui si può stabilire la custodia cautelare in carcere. Per un ragazzino di sedici anni poi». Non solo. Anche le modalità dell’arresto raccontano di un ragazzo che stava provando a non seguire la strada tracciata dal papà, ma quando nasci a Secondigliano e in una famiglia camorristica, camminare su altre strade è quasi un miracolo. Soprattutto, se le istituzioni ti lasciano solo. «Quando sono andati ad arrestare il mio assistito – racconta l’avvocato – stava lavorando in una salumeria. Un ragazzo che nasce a Secondigliano, è il figlio di un affiliato al clan Di Lauro e fa il garzone, ha già dimostrato di voler uscire da quel circuito criminale nel quale è cresciuto».

Il sedicenne confessò subito di aver commesso il fatto, anzi, si presentò davanti al Pm per rilasciare dichiarazioni spontanee e raccontò tutto per filo e per segno. Niente da fare. Sei mesi di carcere e una messa alla prova negata per due volte. «Su questo processo ha contato solo l’opinione pubblica – sottolinea Mottola – Siamo riusciti a ottenere un risultato giusto, cioè la messa alla prova, appena è calato il clamore mediatico». Adesso per lui e gli altri due minori forse una speranza di una vita diversa c’è. «Tutti e tre ora sono stati trasferiti in comunità eccellenti – spiega Mottola – lavorano, sono inclusi in dei progetti formativi. Non serve a niente ghettizzarli e punirli e soprattutto non serve intervenire dopo. Dove sono gli assistenti sociali quando non vanno a scuola? Quando vivono in famiglie violente? Se li rinchiudiamo, li perdiamo”. E questo pare il destino che è toccato ai due ragazzi che all’epoca dei fatti avevano commesso diciotto anni da appena due mesi. Per loro dieci anni di carcere.

«Dovranno scontare la pena nel peggior carcere d’Italia senza la minima possibilità di rifarsi una vita» commenta Mottola. Sbattere due ragazzi di vent’anni in cella e riaprire loro le porte del carcere quando ne avranno trenta, servirà a rieducarli? Come usciranno da lì? Migliori o con un diploma alla scuola di criminalità conseguito in una delle prigioni peggiori del Paese? «La giustizia fallisce quando si trasforma in vendetta – conclude l’avvocato – onore all’avvocatura ultimo baluardo a difesa dei diritti dei più deboli e onore alla magistratura, quella libera e indipendente». Poi la stoccata al consigliere regionale di Europa Verde Francesco Borrelli, sempre incline alle impiccagioni di piazza per chiunque commetta un qualsiasi reato. «Tanto premesso caro consigliere Regionale – incalza Mottola – io sto aspettando ancora la risposta al mio invito a un confronto». Borrelli, come di consueto, era stato il primo a gridare alla pena esemplare.

«La mia è stata anche una battaglia personale, mi auguravano la morte ogni giorno perché legale di uno dei ragazzi – racconta Mottola – ma viviamo in un paese giustizialista e la magistratura si riempie la bocca di principi come il garantismo ma di fatto non sono garantisti per niente. Io penso che Napoli come misure di custodia cautelare in carcere sia ai primi posti e il Riesame oramai è diventato inutile». Una giustizia che punisce e non riabilita non è definibile giustizia. Una società che pensa di combattere i mali che l’affliggono rinchiudendo in quattro mura chi sbaglia si può definire civile?

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.