Nei talk show televisivi, sulle prime pagine dei giornali e perfino nei social media, si discute sempre più dei possibili esiti delle prossime elezioni e sulle variegate strategie, specie comunicative, messe in atto dai leader politici per massimizzare il risultato del loro partito. Sembra che sia il tema principale del momento e che coinvolga un po’ tutti. Eppure, un recente sondaggio di Ipsos, pubblicato sul Corriere della Sera e basato sulle interviste a un campione molto ampio (1000 casi), ci mostra un quadro profondamente diverso. Evidenziando come più di metà dei cittadini del nostro paese non stia seguendo affatto la campagna elettorale e un altro 27% dichiari di prestarvi attenzione solo “in parte”. Di fatto, solo il 22% (poco più di un quinto) degli elettori appare attento alla campagna elettorale, al dibattito (talvolta feroce) in corso e ai suoi sviluppi. Un disinteresse quasi totale. E per di più, in buona parte, i “disattenti” non prevedono di intensificare il loro interesse nelle prossime settimane, con l’avvicinarsi della scadenza del voto.

Ancora, solo metà del campione intervistato dichiara di conoscere le liste e le coalizioni che si trovano in lizza, malgrado i manifesti che campeggiano dovunque. E, com’era facile aspettarsi, una percentuale ancora inferiore (16%) si spinge ad affermare di essere al corrente dei candidati che si presentano nel proprio collegio. Di qui, come abbiamo accennato in un precedente articolo su questo giornale, la facile constatazione che il voto sarà determinato assai più dalle preferenze di partito che dalle caratteristiche dei candidati, che, come si è detto, sono generalmente pressoché ignote. È ragionevole prevedere che l’insieme di queste circostanze faciliterà e amplierà ancor più rispetto al passato la scelta di disertare le urne. Oggi le stime sulla partecipazione si attestano tutte sotto il 70%. Questa situazione e questo diffuso e generalizzato “distacco” dalla politica dipendono sia da problemi strutturali (legati in buona misura alla normativa elettorale vigente, vale a dire la legge Rosato), sia dalle (conseguenti) scelte di posizionamento dei partiti, che, con tutta evidenza non attraggono l’attenzione (e, ancora meno, le scelte) della maggior parte degli elettori.

Per comprenderne meglio i motivi, è utile ricordare che nei regimi di democrazia rappresentativa quella che, con una espressione retorica, viene chiamata volontà popolare è il risultato della interazione fra le preferenze individuali dei cittadini che vanno a votare e dell’offerta politica, cioè della presenza di candidati (espressione in genere di partiti o movimenti) che aspirano ad essere eletti nelle assemblee rappresentative. Le quali ultime in sistemi parlamentari come l’Italia, la Germania o la Gran Bretagna votano la fiducia al capo e ai membri dell’esecutivo (il governo). Quella che abbiamo chiamato interazione è prodotta dalla legge elettorale che regola l’insieme delle procedure delle elezioni, in particolare fra l’altro: le candidature, le liste degli elettori e le suddivisioni territoriali del corpo elettorale, e, soprattutto, la formula o algoritmo che trasforma il grande numero delle preferenze degli elettori in un piccolo numero di seggi parlamentari. È noto che il cambiamento dalla formula elettorale modifica la distribuzione dei seggi in parlamento fra partiti, anche se per ipotesi non mutano le preferenze degli elettori, che possono invece mutare con il cambiamento della offerta politica.

In ogni caso le formule elettorali (proporzionali, maggioritarie o miste, come quella della legge oggi vigente in Italia) hanno in linea di principio un impatto sul comportamento dei partiti, oltre che possibilmente degli elettori. Si parla, ad esempio, di voto utile o di alleanze possibili prima delle elezioni. Per passare dalla teoria alla pratica, si può osservare che con le formule elettorali proporzionali non vi è quasi nessun incentivo per i partiti (che peraltro scelgono in genere i candidati) a formare coalizioni prima delle elezioni. In campagna elettorale, ciascuno di essi cercherà di massimizzare il proprio sostegno da parte degli elettori. Di alleanze e coalizioni in vista della formazione del governo si parlerà solo dopo l’acquisizione dei risultati elettorali. Con questa formula elettorale per gli elettori il compito sarà relativamente semplice: ciascuno sceglierà in base alle sue preferenze, quale che ne sia l’origine e la ragione, il partito che preferisce (e magari il candidato, se la legge elettorale gli permetterà di farlo, se cioè non vi è una lista bloccata, che l’elettore non può modificare).

Nel caso invece in cui vi siano in parte o in toto collegi uninominali, dove il seggio parlamentare viene attribuito al singolo candidato che ottiene il maggior numero di voti espresso (formule che caratterizzano sistemi detti “maggioritari”, quelli cioè dove basta anche la più grande minoranza, cioè meno del 50% più uno dei voti espressi, per essere eletto, purché gli altri candidati abbiano un numero minore di preferenze), in questi casi, dicevamo, esiste in linea di principio un incentivo per i partiti – se questi sono più di due – a creare coalizioni preelettorali per sostenere i candidati uninominali nei collegi, ciò che può dare alla coalizione maggiori possibilità di far eleggere il suo candidato di quante ne avrebbe se ciascun partito presentasse il suo candidato da solo. Per venire al caso delle prossime elezioni del 25 settembre si possono fare alcune osservazioni che illustrano anche i limiti di un semplice approccio razionale all’analisi elettorale.

Come sappiamo, i tre partiti che occupano lo spazio a destra del centro, inteso qui come un punto geometrico sull’asse tradizionale destra sinistra: FdI, Lega e FI, hanno siglato una alleanza preelettorale, scegliendo per il comparto uninominale della legge elettorale in vigore candidati comuni, facendo crescere in questo modo la loro possibilità di vincere il seggio nel collegio, che rischierebbero invece di perdere se ognuno dei partiti avesse deciso di correre da solo. Tale alleanza però non si è costituita a sinistra. Perché? È troppo facile spiegare questa scelta con l’irrazionalità degli attori. Certo, gli esseri umani sono animali che fanno errori e in questo senso l’irrazionalità svolge un ruolo talvolta importante. Ma in certa misura possono essere inevitabili, o dettati dalla incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie scelte. Prendiamo due esempi. FI probabilmente pagherà un prezzo rilevante nell’essersi spostata a destra in una alleanza dominata numericamente da FdI (che fra l’altro ha recuperato anche figure della vecchia guardia berlusconiana). Intanto il partito di Berlusconi ha già perso Gelmini, Carfagna e Brunetta e i sondaggi fanno capire che perde, dunque, voti in direzione sia di Meloni che di Calenda.

Se però FI non fosse andata con gli alleati di destra, un tempo suoi comprimari di più basso rango, rischiava di perdere forse più voti, consegnandosi mani e piedi ad Azione. Dall’altro lato dello spettro, la decisione di Conte di andare da solo non l’ha veramente presa lui, è Enrico Letta che gli ha chiuso la porta in faccia perché non si può fare l’elogio di Draghi e stare insieme con chi – anche in questo caso, crediamo, per un errore – ha fatto cadere il governo. Su una cosa si può credere a Conte: non voleva far cadere il governo Draghi. Si è semplicemente (per inesperienza politica – Grillo dixit) incastrato in una situazione in cui lo hanno messo i partiti di destra, che avevano invece tutto l’interesse di parte (patriottismo in Italia ce n’è poco, nonostante le roboanti dichiarazioni sul tema) ad andare alle elezioni. Infatti, la Lega e FI dicendo a Draghi: andiamo avanti senza i 5S, hanno messo in un angolo Conte, poiché Draghi non poteva accettare un mutamento della sua maggioranza, visto che il suo mandato era quello di rappresentare l’unità nazionale “senza colore politico”, e non possiamo dimenticare che il M5s, ora solo al 13% nei sondaggi (seppur con una leggera tendenza attuale alla crescita), era viceversa al momento della formazione del governo Draghi il primo gruppo parlamentare alle Camere.

Più difficile analizzare gli errori di Letta. I rapporti del PD con Conte si erano molto degradati sin dalla rielezione di Mattarella, e il M5s è sempre stato chiaramente osteggiato dall’area riformista del Pd (anche se le correnti più “di sinistra” vedevano con favore l’alleanza con i pentastellati). E, una volta chiusa la porta in faccia a Conte, Letta, che non è qualcuno che fa giravolte, non poteva facilmente allearsi di nuovo con lui. Allora ha provato ragionevolmente l’accordo con i più “draghiani”: Calenda e C. Accordo però che gli si è frantumato fra le mani per la smania di prendere un po’ di voti della sinistra radicale (e nei fatti anti-Draghi). I dettagli di quest’ultima vicenda non sono in questa sede molto rilevanti. Conta che l’incentivo della legge Rosato a creare alleanze prima delle elezioni non sempre funziona. È appunto un incentivo, non un obbligo. Le formule elettorali sono importanti, eccome; ma il loro impatto sui risultati dipende anche da altri fattori che co-determinano il comportamento degli elettori e degli attori politici. E l’insieme di queste circostanze, in parte tecniche, in parte più squisitamente politiche, sembrano appassionare (o, più semplicemente, interessare) sempre meno i cittadini.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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