Nel Pd ha avuto di nuovo corso l’alternanza tra fasi in cui la leadership tocca a un esponente ex Pds (con una contestuale scissione da destra) e momenti nei quali la guida ricade su uomini dell’ex Margherita (con susseguente abbandono da sinistra). Il terzo segretario di formazione democristiana prende così le redini dopo la deriva di Zingaretti che ha accompagnato il suo partito alla paralisi. Con l’abbandono di Zingaretti, in fuga (forse) verso il buen retiro del Campidoglio (anche questo un déjà vu), viene sancito non solo un limite personale di direzione ma una carenza più profonda di strategia che coinvolge l’equivoco della generazione dei quadri post-comunisti costretti ormai a un ruolo del tutto marginale.

Il limite che il Pd ha evidenziato, con i suggerimenti tattico-ideologici di Bettini, risiede nella confusione, stigmatizzata già da Machiavelli, tra “astuto” e “savio”. Con una overdose di astuzia, che è altra cosa però dalla intelligenza politica, il Pd ha cambiato radicalmente posizione sul referendum per il taglio dei parlamentari, sulla urgenza di una legge elettorale correttiva. Credeva, con l’astuzia mostrata nel reclutamento dei “responsabili”, non solo di saziare l’anima governista di un partito degli eletti ma anche di prenotare un ruolo significativo nel medio periodo indicando il ritrovato punto di equilibrio, l’avvenuta conversione grazie ad azione pedagogica del populismo cattivo in populismo gentile, l’alleanza strategica sotto i vessilli di “Conte o voto” con cui ha percepito l’avvento di Draghi come una usurpazione.

Zingaretti ha avuto in qualche caso “fortuna” (soprattutto con la vittoria quasi casuale in Puglia che lo ha mantenuto in sella per un po’ lasciando nel dimenticatoio la perdita di Umbria, Marche), ma non ha mostrato “prudenza” ovvero capacità politica nella costruzione delle condizioni durevoli del successo. Il limite strutturale però non è un mero deficit che coinvolge solo Zingaretti, si tratta piuttosto di una mancanza di gran parte del ceto politico post-comunista, del Pd e di Leu, incapace di preservare una visibile autonomia rispetto al populismo gentile. La visione per cui il politico più popolare era tenuto sotto scacco dal politico più impopolare, le narrazioni su Conte come incarnazione di una stagione di grandi riforme sociali che solo per aver osato ha scatenato le furie vendicative delle élite, mostrano a chiare lettere un ceto politico smarrito, che sui processi reali ha le stesse categorie del Fatto, cioè nulla in comune con una cultura moderna di sinistra.

Che Letta abbia a disposizione più “tecnicalità” rispetto alla conduzione di Zingaretti e Bettini è già evidente. Che una maggiore accortezza “professionale” sia sufficiente per risolvere il dilemma esistenziale del Pd è ancora tutto da appurare. Con più cautela il neo segretario legge il problema delle alleanze schivando i rischi palesi di subalternità verso “l’Elevato” e evitando di trasformare il Renzi-traditore e regista dell’intrigo che ha portato “il cigno Nero” al governo in nemico principale. Proprio all’area liberaldemocratica, alla quale anche Letta appartiene, si pongono adesso problemi di competizione che la obbligano alla ridefinizione dello spazio politico residuale. Con questi accorgimenti preliminari di puro buon senso non sono però sciolti i dilemmi strategici.

Letta riesuma la legge elettorale Mattarella per una reviviscenza della stagione ulivista. Non solo gli attori sono cambiati (la sinistra radicale di allora ha poco a che fare con il grillismo di oggi) ma anche l’induzione per via meccanica alla strutturazione bipolare della contesa pare altamente problematica. L’accentuazione del profilo maggioritario, già contenuto nell’attuale legge Rosato, non solo risulterebbe assai più funzionale agli obiettivi della destra ma obbligherebbe all’allestimento di coalizioni insincere nei collegi uninominali pronte a sciogliersi alla prima evenienza in aula. La malattia della Seconda repubblica, travolta dal tripolarismo che ha mandato in frantumi un sistema che nel 2013 contava sul premio di maggioranza e quindi sul vincitore certo, non può tramutarsi in terapia di fuoriuscita dal malanno organico del sistema.

Se non si vuole la proporzionale alla tedesca non resta che il doppio turno alla francese. Il maggioritario di coalizione agevola invece la perdita di “anima”, lo smarrimento di radicamento e autonomia. Quanto all’anima, il Pd non ha ancora risolto i nodi identitari e per questo basta un avvocato del popolo per farne saltare gli equilibri di pensiero. In Europa i socialisti danno segnali di risveglio in Germania, Inghilterra, Spagna. Letta che viene dal centro moderato (ma anche Mitterrand non proveniva dai socialisti) potrebbe fare quello che gli ex comunisti non sono stati capaci di fare (questo è il loro più grande fallimento) e cioè, operando come un Delors, dare una soluzione all’enigma identitario senza il quale manca una sinistra moderna e però concepita per la rappresentanza sociale dei lavori. Questo, più che il “cacciavite”, sarebbe il vero antidoto al populismo che penetra nei vuoti della alienazione sociale della tarda modernità.

Anche sul terreno della cultura politica servono degli aggiustamenti. Letta ha condiviso la ricetta di una cura omeopatica al populismo quando, da presidente del Consiglio, impose l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e, in tempi più recenti, allorché ha sostenuto il referendum grillino per il taglio dei “costi” della rappresentanza politica. Tracce di questo indirizzo omeopatico si rinvengono nella proposta del voto a 16 anni che, più che il “cacciavite”, esigerebbe varie e grandissime riforme costituzionali, con revisioni dei codici, civile e penale, del diritto di famiglia. Più sensata pare la riproposizione dello ius soli ma, per non ridurre la questione dell’integrazione a semplice chance di posizionamento entro una coalizione imbarazzante con il capitano che sorregge il governo, servirebbe una capacità di coniugare diritti e radicamento sociale.