Neppure le briciole. E se potesse dirla con parole sue, più o meno suonerebbe così: “Io so io e voi (Forza Italia e Lega, ndr) non siete nulla. Fatevene una ragione”. Ma dietro la presunta “arroganza” di Giorgia Meloni che ha deciso di giocare il ruolo di asso pigliatutto nella partita sulle nomine delle big six partecipate dallo Stato, si stanno giocando partite politiche ma soprattutto strategiche rispetto al convitato di pietra di ogni riunione di governo: il Pnrr.

Lo schema che sta guidando le mosse della premier non risponde solo alla logica di sempre, il potere. I manager che guideranno Eni, Enel, Leonardo, Poste, Terna e Ferrovie (le prime cinque scadono il 13 aprile, Ferrovie un po’ più in là) sono infatti l’ultima chance, secondo la premier, per realizzare il Pnrr, spendere i circa duecento miliardi (98 a fondo perduto, il resto a debito con tanto di interessi) che l’Europa ha messo a disposizione dell’Italia e salvare il Paese. Questo significa che Meloni e Fitto hanno già deciso come riscrivere il Piano: accentrare le risorse su grandi progetti infrastrutturali affidati ai grandi player (le partecipate) con buone pace di quei piani integrati urbani che dovevano rigenerare i tanti piccoli comuni italiani che però non sarebbero in grado di realizzare i progetti e spendere i soldi.

Una riunione breve. Con fumata nera
È stato un consiglio dei ministri breve – dalle 16 (un’ora di ritardo) alle 17.30 – ma intenso. Ancora una volta nessuna conferenza stampa per spiegare e illustrare. Solo il consueto comunicato. In cui non si parla di nomine. Segno che c’è stato un nuovo rinvio e che le tensioni tra Fratelli d’Italia e Lega (ormai rimasta sola nell’opposizione interna) crescono. Mentre la riunione dei ministri era in corso, Salvini ha fatto arrivare un segnale chiaro dal suo capogruppo alla Camera Riccardo Molinari: «Sarebbe bizzarro se a scegliere fosse un partito solo». Da qui il nuovo stop. Ma tutto sarebbe già deciso.

Anche perché entro il 13 aprile quei nomi devono uscire per forza. Per tacitare le tensioni di maggioranza il governo ha deciso di mettere in campo due straordinarie armi di distrazione di massa: un disegno di legge contro gli “ecovandali”, copyright ministro della Cultura Sangiuliano, che alza fino a sei anni di carcere le pene per chi imbratta di vernice monumenti e palazzi; la dichiarazione dello stato di emergenza per gestire i flussi migratori. L’ultima volta era stato il 2011, al Viminale c’era Roberto Maroni, e il Nordafrica era attraversato dalle primavere arabe. La situazione oggi è seria – tremila sbarchi solo nel fine settimana, 27 280 nei primi tre mesi – ma non ai livelli del febbraio 2011. Secondo il Viminale, e il governo, invece “non c’erano questi numeri da almeno quindici anni”.

Tre miliardi per tagliare le tasse
Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti è stato il protagonista della riunione. Ha portato un Documento di economia e finanza con buoni numeri, un tesoretto di circa tre miliardi che sarà subito investito nel taglio del cuneo fiscale nelle fasce più basse di reddito. In generale la pressione fiscale dovrebbe diminuire in tre anni dello 0,5%. Un po’ poco rispetto ai proclami della campagna elettorale. È in generale la prospettiva dei tre anni (2024-2026) che lascia perplessi.

Non ci sono le risorse per fisco e pensioni. La sensazione è che manchi una vera progettualità, che il governo navighi un po’ a vista. Soprattutto, se dovesse saltare il Pnrr, la prospettiva è il default. «Il quadro economico-finanziario – ha spiegato il ministro –resta incerto e rischioso a causa della guerra in Ucraina, tensioni geopolitiche elevate, il rialzo dei tassi di interesse e per l’affiorare di localizzate crisi nel sistema bancario e finanziario internazionale». In questo contesto l’economia italiana «continua a mostrare una notevole dose di resilienza e vitalità». Il 2022 si è chiuso con il Pil in aumento del 3,7% e, nonostante il rallentamento congiunturale della seconda metà dell’anno, nei primi mesi del 2023 l’economia del Paese ha ripreso a crescere.

Il rapporto debito/pil continua a diminuire. Nel 2022 è stato pari al 144,4%, 1,3 punti percentuali inferiore rispetto alle previsioni di novembre. Così sarà nel 2023 (142,1%), nel 2024 (141,4), nel 2025 (140,9) fino al 140,4% nel 2026. Giorgetti mette il dito nella piaga del superbonus: «Non possono essere ignorati gli effetti di riduzione del rapporto debito/Pil che si sarebbero potuti registrare se il super bonus non avesse aVuto gli impatti sui saldi di finanza pubblica che sono stati finora registrati». Il deficit sarà del 4,5% nel 2023, 3,7 nel 2024 fino al 2,5% nel 2026. Il Pil è dato in crescita (+0,9%) quest’anno, meglio del previsto (0,6%). E poi 1,4 nel 2024, 1,3 nel 2025 e 1,1% nel 2026. E qui, dietro i segni positivi, si comincia a intravedere che non è tutto oro quel che luccica. La stima per il 2024 è infatti rivista al ribasso, quasi un crollo, da +1,9 a un assai più modesto 1,4. Idem per i due anni a seguire. E qui sul banco degli imputati c’è soprattutto il Pnrr.

Giorgetti ha ribadito, nella riunione dei ministri, che il governo “è al lavoro per ottenere la terza rata del Pnrr”. Che sono in corso «le interlocuzioni con le istituzioni europee per la revisione e la rimodulazione di alcuni degli interventi previsti». Giorgetti vede rosa e pensa in lungo. Definisce la “prudenza” che caratterizza questo Def come tutte le scelte da lui compiute sinora, “ambizione responsabile”. Parla di “grandi sfide” (dai cambiamenti climatici al declino demografico) ma anche di “notevoli opportunità” per aprire una nuova fase di sviluppo del nostro Paese. «Le riforme avviate intendono riaccendere la fiducia nel futuro tutelando la natalità e le famiglie e riconoscerà lo spirito imprenditoriale quale motore di sviluppo economico, promuovendo il lavoro quale espressione essenziale dell’essere persona».

In pressing “contro” il Pnrr
Ma tutto questo deve fare i conti con il Pnrr. Il pressing mediatico delle destre sta attaccando il Piano di resilienza, sta creando le condizioni emotive per cambiarlo radicalmente, scarica le responsabilità sui governi Conte (che ha chiesto troppi soldi a debito) e su Draghi che avrebbe selezionato progetti sbagliati. La verità è che, al netto di qualche progetto sicuramente velleitario e fuori contesto, questo governo ha perso nove mesi di tempo: i tre della campagna elettorale, e altri sei da quando Giorgia Meloni è a palazzo Chigi e discute come cambiare un Pnrr che Fratelli d’Italia, quando era all’opposizione, non ha mai votato. Per “accelerare” le cose hanno anche cambiato la governance. Il Pnrr è un puzzle delicatissimo, nei tempi, modi e contenuti: perder nove mesi e cambiare i pezzi vuol dire far saltare tutto.

Giorgia Meloni sta giocando d’azzardo: vuole convincere Bruxelles e cambiare radicalmente il Pnrr di Draghi. Per farlo ha bisogno di aver i “suoi” uomini, le sue pedine, ai vertici delle grandi aziende pubbliche che sarebbero le uniche al momento in grado di liberare progetti e la loro realizzazione. Meloni vuole Descalzi all’Eni, Cingolani a Leonardo, Donnarumma all’Enel, confermare Del Fante in Poste , Giuseppina Di Foggia a Terna. Quattro su cinque sono già ai vertici delle partecipate. Salvini invece chiede una netta discontinuità. E vuole poter decidere almeno un paio di presidenze. Idem Forza Italia. Ma a loro, se va bene, saranno lasciate le nomine di seconda fascia. Lo sapremo nelle prossime ore. Lontano dai riflettori del Consiglio dei ministri.

 

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.