Né l’amministrazione Biden vuole combattere contro Pechino, né il regime cinese vuole una guerra contro il Pentagono. D’accordo. L’esito e le conseguenze d’un eventuale reale conflitto sono impossibili da prevedere per entrambi. Quindi nessuno cerca davvero la guerra. Ma le guerre guerreggiate, le guerre calde, scoppiano anche senza volere esplicito e contemporaneo delle parti. Scoppiano per improvvise escalation di fatti non sempre controllabili, scoppiano per catene di casualità, scoppiano per incidenti cercati da un impulso improvviso di una delle forze in campo.

Per questa ragione le smargiassate cinesi su Taiwan e il gioco a recuperare l’antico impero perduto nel quale sembra assai impegnato il presidente Xi Jinping da qualche mese non sono da archiviare nelle innocue attività di tronfia retorica necessarie a un regime. No. Perché l’ossessione di Pechino di controllare ciò che transita nel Mar della Cina è una razionalissima necessità della sua volontà di potenza. E la determinazione di Washington ad impedirlo ha ragioni uguali e contrarie. Taiwan, isola che si vuole indipendente ma di cui la Cina rivendica il possesso, sta lì a galleggiare in uno spazio strategico tra Mar cinese meridionale e Mar cinese orientale. E’ inevitabile la sua candidatura naturale a casus belli in quella che, anche senza essere l’origine di una terza guerra mondiale, è già da tempo la scena in cui si svolge lo scontro per decidere chi comanderà al mondo più degli altri nel prossimo futuro. Quell’isola serve a Xi Jinping a controllare l’accesso agli oceani. Per quelle strade d’acqua passa il novanta per cento del commercio marittimo. La rotta principale collega, attraverso stretti indocinesi e indonesiani, i porti della Cina orientale al Medio Oriente, all’Africa e all’Europa. E conseguentemente all’America del nord e del sud.

Vediamo dunque di capirci qualcosa, di capire innanzitutto a che gioco gioca la Russia. Perché a far squillare insieme tutte le sveglie della diplomazia planetaria non è stata tanto l’esibizione inedita di minaccia militare cinese su Taiwan, i 150 aerei cinesi sul cielo dell’isola a ottobre o le punzecchiature tra emissari americani e funzionari di Xi Jinping, quanto una gelida uscita dell’altrettanto gelido Sergej Lavrov, il ministro degli esteri di Putin, che ha detto chiaro chiaro di considerare Taiwan parte della Repubblica popolare cinese. Il tutto, violazioni cinesi di spazio aereo taiwanese e prese di posizioni russe, è avvenuto in una ventina di giorni nell’ottobre scorso. E da allora è cambiata la partita. Che non è più nemmeno apparentemente soltanto tra Pechino e Washington. Perchè del già trafficatissimo Mar della Cina ha mostrato con sottolineature di toni molto esplicite di volersi impicciare anche Putin. A sua volta preso a giocare agli antichi domini imperiali in Ucraina.

Formalmente Taiwan si chiama Repubblica di Cina, resto dello Stato fondato nel 1912 sulle ceneri dell’impero Qing. Su quell’isola e sulle isolette sparse lì intorno si rifugiò Chiang Kai-shek, capo nazionalista della Repubblica di Cina, dopo aver perso contro Mao. Instaurò sull’isola una dittatura. Pechino la considera da sempre roba sua. Ma Taiwan, ora grosso modo democratica, si considera comunque indipendente. Perché finora il caso è sempre rientrato tra le crisi che covano sotto la cenere senza però ardere a fiamme alte? Perché i capi politici di Taiwan hanno accettato, per non rovinarsi i rapporti con gli americani, di non squarciare il velo d’ipocrisia con cui Pechino e Washington tengono coperta la questione Taiwan. “Cina unica” si chiama questo velo. Una formula vuota di significato reale, ma densa di accordi a tacere per convenienza, con cui le due diplomazie delle superpotenze hanno evitato finora di confliggere evitando di affrontare lo spinoso dossier. Un comodo tabù che ha fatto comodo a tutti, compresi i taiwanesi.

Ora che lo scontro tra Pechino e Washington si scalda su altri fronti, il velo penoso della “Cina unica” è stato sollevato. Pechino non ha ragione di non esibire la sua volontà di prendersi Taiwan perché non ha ragione di tacere sulla volontà di prendersi gli oceani. E proclama quindi quando può che entro il 2049, anniversario di regime, l’isola tornerà sotto completo controllo cinese. Washington non può lasciarla fare se non vuole suicidarsi come potenza globale. Pechino non dichiara guerra, ma provoca, polemizza e rende più forti la sua Marina e la sua Aeronautica. Gli Stati uniti si schierano a difesa dell’isola. Chissà se stanno impiantando là armi di punta. Di certo lavorano per tenersi cari tutti i Paesi dell’area indopacifica così da poter minacciare di chiudere le rotte in caso di conflitto con la Cina. Su chi conta Pechino? Su se stessa e basta. Perché certo la Corea del nord e il Pakistan, suoi alleati, non sono sostegni favolosi. E il regime non possono fidarsi della Russia di Putin che, a sua volta, teme l’espansionismo cinese perché sempre sotto casa sua sta e potrebbe entrare attraverso le lande siberiane. Intanto però Mosca assicura tecnologia, energia e armi.

Il ministro cinese Wang Yi si limita per ora a dire ad Antony Blinken che spieghi bene a Washington di “non inviare segnali sbagliati”. Il capo della diplomazia americana risponde che gli Stati Uniti si oppongono alle azioni “unilaterali” della Cina sull’isola e a qualsiasi cambiamento dello status quo a Taiwan. Dicono che saranno “risoluti” nel rendere l’isola in grado di difendersi. Wang chiede a Blinken di rispettare gli impegni presi, ricorda sottilmente il prezzo della formuletta Cina unica, ripete come disco rotto: Taiwan fa parte della Cina. E il girotondo ricomincia. Diplomatico, per ora.