Il tema dell’emergenza rimbalza in queste settimane nel dibattito pubblico disperdendosi in mille rivoli. L’emergenza viene declinata in tutti i suoi semitoni: è sanitaria, è economica, è sociale, è carceraria, è istituzionale, mentre si fanno nitidi i contorni anche di una sempre più incombente emergenza politica che, come sempre nella vita delle democrazie, tutte le riassume e le porta a sintesi sul piano degli equilibri tra le forze parlamentari. D’altronde sarebbe pericoloso se condizioni emergenziali di questa ampiezza non avessero anche importanti ricadute politiche e istituzionali.  Si staglia con chiarezza innanzi agli occhi di tutti gli osservatori più autorevoli la convinzione che il Paese non potrà uscire da questo immenso pantano senza una svolta più o meno radicale in quasi tutti i settori. Svolta che, per definizione, esclude la possibilità di un puro ritorno al passato, almeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto. Una vera Nuova Repubblica potrebbe stagliarsi all’orizzonte anche se dai contorni incerti, confusi, sfumati: una sagoma avvolta in una fitta nebbia e di cui non si distingue ancora alcuna forma precisa.

L’emergenza come “fatto costituzionale” (direbbero i sacerdoti della Carta) capace di generare un assetto profondamente diverso nelle istituzioni della Nazione, come una guerra o una rivoluzione. In questa prospettiva la condizione d’emergenza del Paese non deve soltanto spaventare, ma – come in tanti a parole dicono non mostrando tutti la stessa convinzione – deve anche incoraggiare a guardare al futuro con occhi di speranza. Ciò posto, il presidente Cartabia, con la consueta sensibilità istituzionale, ha qualche giorno or sono colto l’occasione per ricordare che la Costituzione italiana – a differenze di altre Carte, democratiche pur esse – non prevede e non disciplina lo “stato d’emergenza” ossia le forme e i limiti della dichiarazione d’emergenza da qualunque autorità sia proclamata (in genere il governo e/o il parlamento). Subito ha preso vigore ed è divampata la polemica sull’eccessivo ricorso alla decretazione amministrativa da parte della presidenza del Consiglio, sulla necessità di parlamentarizzare le decisioni emergenziali che riguardino le libertà e i diritti dei cittadini.

Tanto cruciale è l’argomento che persino la presidenza della Repubblica ha ritenuto opportuno rassicurare la pubblica opinione sulla vigilanza che il Colle esercita su tutti i provvedimenti governativi dell’era pandemica. La questione è straordinariamente rilevante. Per comprenderlo basterebbe leggere il bellissimo libro di Giorgio Agamben (Stato di eccezione, 2003) che evoca il famoso brocardo di Carl Schmitt (Teologia politica, 1934) secondo cui sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione nel senso che decide se sussiste lo stato di eccezione e, secondariamente, che decide su cosa si debba fare per superarlo. È intuitivo che lo stato d’emergenza sia il prologo più prossimo dello stato d’eccezione e che le i poteri repubblicani, nel vuoto costituzionale, ne avvertano tutta l’ammaliante insidia e il vertiginoso abisso di autorità. Con decine di migliaia di morti e un Paese a pezzi incombe latente l’idea che la sovranità spetti per intero a chi gestisce l’emergenza e che tutti gli altri debbano mettersi in disparte per lasciare al supremo decisore il compito di sbrogliare la crisi.

Ci si potrebbe chiedere, per il solo fatto che un simile dibattito si sia aperto nel pieno della peste contagiosa, se i padri costituenti siano stati lungimiranti nel lasciare questo vuoto e se una più o meno radicale riforma costituzionale non debba por mano anche a questo aggiustamento dei poteri dello Stato. Certo non si può disconoscere che molte forzature sul piano delle garanzie e della tutela dei diritti siano state consumate proprio in nome di mille emergenze a-costituzionali o, se si vuole, costituzionalmente anomiche perché prive di regole esplicite nella Carta fondamentale.
Sul piano del diritto penale, del processo penale o del diritto penitenziario è innegabile che dagli anni Settanta in poi si sia vissuta la progressiva stabilizzazione normativa di istituti e rimedi che, smarrita la sorgente emergenziale, sono rimasti in piedi in tutta la loro dirompente carica di stato d’eccezione rispetto allo statuto ordinario delle garanzie fondamentali. È stato così per la legge sui pentiti di terrorismo e poi di mafia, per le intercettazioni a strascico, per il regime del carcere duro a 41-bis, per lo scioglimento degli enti locali infiltrati, per la sospensione dei benefici penitenziari, per le videoconferenze nei processi e via seguitando.

Il costante consolidarsi nell’ordinamento di una legislazione dichiaratamente approvata come emergenziale e divenuta poi irremovibile rappresenta – in questi giorni – il discrimine più evidente tra le posizioni di una parte della magistratura, soprattutto inquirente, ben disposta verso i nuovi protocolli processuali imposti dalla pandemia (in primo luogo l’uso massiccio delle videoconferenze) e un’avvocatura guardinga e sospettosa che prefigura l’irreversibile cedimento sul piano delle garanzie processuali anche quando la vita tornerà a scorrere nelle aule di giustizia.

Ecco la mancanza di una clausola costituzionale sull’emergenza manifesta oggi forse uno delle crepe più vistose nell’architettura del sistema disegnato nel 1947 e il vuoto di regole ha finito per ergere a “sovrani” organi e funzioni che la Costituzione non voleva in alcun modo legittimare in questa posizione assolutistica di autoregolazione delle emergenze permanenti. In un mondo nel quale le crisi emergenziali di ogni genere sembrano porsi come la nuova declinazione dei cicli storici dell’umanità, uno statuto preciso della legislazione emergenziale – intesa come diritto naturalmente temporaneo o transitorio – avrebbe consentito di superare diffidenze e preoccupazioni di ogni genere aprendo la strada a misure viste ora con sospetto e scarsa condivisione.

Talvolta anche con il pericolo di qualche incomprensione e insofferenza verso quanti come la Corte di Strasburgo o la Consulta sempre più volgono lo sguardo ai regimi speciali, soprattutto penitenziari, chiedendosi se sussistano ancora e con quel vigore le condizioni emergenziali da cui promanarono decenni or sono.