I retroscena della guerra
Strage di Bucha, tutto quello che non torna: è caccia ai collaborazionisti dei russi
Sacchi di sabbia alle finestre e grandi teloni mimetici. Sta al centro di Kiev ed è la sede generale del Servizio di sicurezza dell’Ucraina. Da lì è uscito un mesetto fa Artiom Dehtiarenko, portavoce del Servizio segreto delle Informazioni ucraino, per annunciare che soltanto nella provincia di Kiev erano stati individuati 33 presunti collaborazionisti dei russi, già la settimana dopo il numero ufficiale degli arrestati con questa accusa era arrivato a 300.
Le notizie da città vicine alla frontiera raccontano di molte denunce. Ad Izyum, nella zona di Kharviv, vicino al confine russo, un abitante del posto è stato additato come collaborazionista, qualcuno ha detto che passava informazioni ai russi per aiutarli ad orientare i missili. Un giornale locale riporta la notizia della sua lapidazione in strada. Il suo cadavere è rimasto a terra per tre settimane. Il Servizio di sicurezza lavora con la polizia e con le unità di difesa territoriale per individuare presunti collaboratori e processarli per tradimento della patria. “Questi fatti esistono e stiamo lavorando su questo” su Kyiv Indipendent, un giornale locale, il capo della polizia del distretto di Buchanskyi nella provincia di Kiev. Si chiama Olexandr Omelienenko. A Bucha per esempio è stato portato via da militari ucraini un abitante sessantaduenne che è originario di Krivoi Rog, un paesino vicino alla frontiera con la Russia. I suoi vicini lo hanno indicato come la persona che avrebbe passato ai russi informazioni sulle posizioni dell’esercito ucraino, dicevano anche che aiutasse i russi nei pattugliamenti.
Di ricostruire la notizia delle retate di collaborazionisti a Bucha si è occupato l’inviato in Ucraina de El Pais Jacobo Garcia. Che da qualche giorno è arrivato ad Odessa: “La mia ricerca è partita dalla testimonianza di una donna – racconta al telefono – mi ha raccontato di essere certa che un suo vicino aveva indicato agli occupanti russi la sua casa. I russi sono arrivati in cinque, stavano cercando armi, erano certi di trovarle in casa. Diceva che sapevano che suo marito era militare perché un vicino gliel’aveva detto. Lei non ha denunciato il vicino agli ucraini come spia russa. Però da lì ho iniziato a verificare informazioni e ho trovato dati ufficiali che parlano di persone fermate con l’accusa di aver collaborato con i russi e ho incontrato una brigata di polizia locale che andava in giro per Bucha casa per casa cercando dati”.
Molti gli ucraini detenuti per essere stati segnalati come delatori? “I dati ufficiali confermano arresti di presunti collaborazionisti, sì. Quello che io ho avvertito è che c’è una atmosfera collettiva, tutti accusano tutti, siamo in un momento di massima tensione e s’è liberata una certa ossessione, una mania accusatoria di ciascuno contro l’altro. Si tratta di reali sospetti e anche necessità di vendetta, bisogno di spiegarsi in qualche modo fatti orribili. In qualche caso è vero, in altri no, è la condizione umana che produce questo fenomeno. L’atmosfera a Bucha è pesantissima. Se io e te passiamo lì tre giorni è molto probabile che qualcuno dica a qualcun altro che siamo collaboratori dei russi”. Cos’hai visto a Bucha? “Ho visto una pattuglia di polizia locale setacciare casa per casa. Entravano a parlare con gli abitanti di ogni casa per documentare quanti casi di violenza sessuale ci fossero stati, quanti altri tipi di aggressione e chiedendo poi: secondo voi qualcuno vi ha segnalato ai russi? Chi è stato secondo voi? Passavano per la strada di nome Yablonka, volevano sapere come i russi potessero aver stilato liste con nomi e indirizzi di abitanti leali ai soldati ucraini, con l‘aiuto di chi l’avessero fatto”.
Anche il sindaco di Bucha, Anatoli Fedoruk, è stato additato come sospetto. “Membri dei Comitati di difesa territoriale l’hanno accusato di essere sparito chissà dove durante i giorni terribili di marzo in cui a Bucha c’è stata l’occupazione più feroce. Che succede? Lui per alcuni giorni sparisce, nessuno sa dove sta. Spuntano allora molte voci su dove diavolo sia finito, sul sospetto che stia collaborando con i russi. Nessuna prova, che io sappia. Ho parlato con molta gente e mi è sembrato sinceramente che lui fosse terrorizzato dalla presenza dei russi in città e, siccome era riuscito a trovare un nascondiglio sicuro, c’è rimasto finché ha potuto. Non ho avuto modo di provarlo. Non ho dati reali per accusarlo di nulla, a me è sembrato un uomo morto di paura che s’era nascosto in un garage. Poi, uscendo, ha detto una frase idiota come se a Bucha non fosse successo niente quando invece erano accadute cose terribili. Il fatto che la Russia si sia attaccata a questo per dire non è successo nulla, lo ha esposto al sospetto. Il ministro degli esteri russo ha usato le parole di lui, sindaco di Bucha, per dire che i russi non hanno compiuto stragi a Bucha. Questo lo lascia agli occhi di molti molto compromesso”.
Come sono composti i Comitati di difesa territoriale? “Sono gruppi di civili organizzati dal potere militare, brigate di civili con armi, stanno in tutto il Paese, sono spesso persone di uno stesso quartiere, controllano di chi entra nel paese, perquisiscono le automobili, vanno a prendere pezzi per tappare le barricate, fanno bassa logistica e controllo, sono civili ma in uno stato di eccezione com’è quello che vige qui rispondono a superiori, non so se rispondono direttamente alla polizia o ai soldati. Per certi versi ricordano i Comitati di difesa della rivoluzione cubani, ma non sono né ben organizzati come i cubani né altrettanto sofisticati nelle funzioni. Questo lavoro di setaccio riguarda per quel che ho visto la zona di Bucha, dove più dolore c’è stato. Lì tutti sospettano di tutti, se sei sospettato di essere filorusso rischi tanto. Esiste in ogni caso ovunque la proibizione a tutti di dire qualcosa di positivo sulla Russia, tutto quel che è russo è vietatissimo. I prorussi sono vigilati. Ma i filorussi mi pare se ne siano già andati tutti altrove. Ora sono ad Odessa, la situazione molto pesante, piovono missili di notte, è stato il posto più castigato nell’anniversario di questo maledetto giorno della vittoria”.
Cosa ti dicono le persone comuni, vogliono vincere la guerra o vorrebbero trattare la pace? C’è gente che dice si tengano la Crimea basta che smettono di bombardarci? “C’è tanta esaltazione nazionalistica ancora, parlano di essere uniti, dicono difendiamo la patria, anche la gente che detestava Zelensky ora ne parla bene perché gli pare che sappia fronteggiare i russi, il clima è molto segnato da quanto male se la stanno passando città come Odessa che non erano abituate alla violenza. La novità è che non è più la guerra in posti remoti dell’est, l’entusiasmo patriottico che c’è non reggerà secondo me più di due mesi. Combattono giovani, non vogliono andare a morire, ci sono molti volontari che quando vedono come si muore hanno voglia di smettere. L’onda bellicista sta calando, l’unità patriottica è molto forte ma non durerà a lungo”.
C’è davvero questa resistenza di gente comune, camerieri, avvocati? “Sì, molti di quelli che non sono scappati aiutano, cuciono giacche antiproiettile, ho visto maestre che cuciono tele per coprire le barricate, un attore di teatro che fa logistica per i soldati, esiste nella società un coinvolgimento. Sono persone che non possono lavorare, non ci sono mezzi di trasporto. Nella scuola che ho visitato di 150 bambini ne sono rimasti 9. È un modo di canalizzare la frustrazione di chi è rimasto e non può lavorare, nella impossibilità di fare cose più importanti. A Zelensky mi pare che stiano chiedendo di vincere. Non sento nessuno dire: cambiamo rotta, dicono: dobbiamo annientare questi bastardi. Si lamentano che non si stia arrivando quel di cui hanno bisogno. Ma c’è una larga parte che si stanno cominciando a stancare”.
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