Caino e Abele. La storia delle storie, conosciuta fin dalla notte dei tempi. Caino che uccide il fratello, violenza e rancore che conducono alla morte. Abele è la vittima, Caino il carnefice. Ma Caino è vittima anche lui, di sé stesso. Nessuno giustifica Caino per l’atto commesso, ma comprendere non vuol dire giustificare né tantomeno sminuire il dolore di una famiglia devastata dalla morte atroce di un figlio. Ma capire vuol dire che Caino è anche la sua storia, non è solo la sua mano che uccide. E veniamo ai giorni nostri, Giovanni che muore con una lama conficcata nel cuore e un ragazzino di quindici anni, è lui il Caino. Ma perché? Scaviamo nella vita di Caino, andando oltre la banalità del male e senza per questo assolverlo.

Dove è cresciuto il Caino di Torre Annunziata? Con chi è cresciuto? Anzi, con chi sono cresciuti i due caini, perché al momento sono due i quindicenni fermati per l’omicidio di Giovanni. I due crescono nelle case popolari di Torre Annunziata in palazzoni di cemento assemblati con la colla della criminalità. Difficile sfuggire a quelle pareti che intrappolano e condannano. Stando alle prime ricostruzioni entrambi i genitori dei quindicenni sarebbero legati alle famiglie criminali della zona facenti capo al sodalizio del clan Gallo-Cavalieri. I padri di entrambi infatti hanno precedenti per reati associativi, spaccio, e reati contro il patrimonio. I due quindicenni, invece, hanno precedenti per violazioni del codice della strada.

«Le famiglie di provenienza incidono moltissimo sulla condotta criminale adottata dai due ragazzini – spiega Giacomo Di Gennaro, professore di sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale – e il problema è che c’è un vero processo educativo che passa attraverso un indottrinamento che si ancora a una serie di principi, comportamenti e atteggiamenti dove l’uso della violenza è considerato un fatto normale. I due ragazzini avevano precedenti per violazione del codice della strada – continua – vuol dire che è un ragazzo di quindici anni che si comporta già come un adulto, è un susseguirsi processuale di un comportamento nel quale la violazione è considerata una cosa del tutto regolare e così nell’azione deviante i due ragazzini non fanno altro che ricodificare i propri linguaggi e i propri sistemi educativi e tutto questo scardina i normali passaggi generazionali e avviene ciò che noi chiamiamo, da un punto di vista sociologico, la profezia che si auto adempie».

In letteratura questo concetto è stato spiegato in maniera molto chiara: sono casi in cui una persona per il solo fatto di pensare che ciò può accadere, alla fine si comporta in una maniera tale che quello che ha pensato, di fatto, accade. E quindi conferma la propria veridicità anche se era infondata. E qual è la cosa che viene creduta vera per la quale ci si comporta in maniera tale che poi accada? Esco con un coltello perché se succede qualcosa, io lo tiro fuori. E succede la cosa più banale, uno sguardo, una spallata, forse un fare provocatorio dove non c’è il controllo della parola, dove subito si ricorre alla violenza. «Questi ragazzi crescono definendo una situazione molto particolare come una situazione reale, ovvero: viviamo in un contesto violento e per questo motivo la mia violenza deve essere superiore alla violenza dell’altro che sicuramente sarà violento – afferma Di Gennaro – Il coltello è, quindi, parte del vissuto quotidiano dei ragazzini. Sono ragazzi abituati alla violenza, alla prepotenza, perché la respirano da sempre dentro casa. Da un lato c’è questo, dall’altro il contesto esterno che è un contesto definito come violento e ci si comporta realmente come violenti. Bisogna rompere questo cortocircuito mentale, educativo, sociale e territoriale».

Quanto incide l’ambiente nel quale si cresce sullo sviluppo di un’indole violenta che conduce ad azioni criminali, spesso con esiti drammatici come l’omicidio di un giovane di 19 anni? Moltissimo. Negli uffici dei servizi sociali per i minorenni, secondo la relazione annuale che verrà presentata a fine mese, stilata dal garante regionale dei detenuti campani Samuele Ciambriello, sono entrati 16 ragazzi per la prima volta e ben 630 per la seconda o terza volta. Questo vuol dire che rimessi nello stesso contesto sociale, tornano a delinquere. A questi numeri si aggiungono quelli forniti dall’unica ricerca presente in Italia sul tema dei reati minorili, firmata dal prof Di Gennaro. Ecco ciò che avviene all’interno del distretto giudiziario di Napoli. I minori che sono stati titolari della messa alla prova, nel 18,5% dei casi hanno avuto una ricaduta criminale (commettono un reato diverso da quello per il quale erano stati già condannati). I giovani ai quali è stata concessa l’irrilevanza del fatto (giudizio che viene dato a esito del processo, il minore viene giudicato per un fatto che risulta essere irrilevante) tornano a delinquere, hanno una ricaduta criminale nel 15,6% dei casi.

Ricade nella criminalità anche il 24,1% dei minori che hanno ricevuto il perdono giudiziale (vengono perdonati dalla giustizia, il reato viene annullato). I minori dietro le sbarre per la seconda volta costituiscono il 63% della popolazione carceraria minorile. I minori in messa alla prova mostrano un tasso di recidiva pari al 25,7%. Ovvero, commettono per la seconda volta lo stesso reato per il quale erano stati precedentemente condannati. Minori raggiunti dal provvedimento di irrilevanza del fatto: 23,6% di recidiva. Perdonati giudizialmente: il 32,2% di loro ha ripetuto lo stesso reato. «È evidente che c’è un problema di ambiente sociale criminogeno, c’è un problema di investimenti di lunga durata da fare nel welfare in queste realtà dell’hinterland napoletano – spiega Di Gennaro Si scivola nella reiterazione del reato perché la sub cultura deviante viene alimentata dall’ambiente. E qui non c’entra più il problema della polizia o del controllo del territorio, è un problema di investimenti che non vengono fatti da decenni. C’è una duplice azione da fare: da un lato avere il coraggio di allontanare i minori dalle famiglie con una condotta criminale accertata. Dall’altro bisogna intervenire su questi ragazzi che sono vicini alle realtà criminali, e che vivono una condizione di marginalità e povertà educativa per la quale i comportamenti violenti vengono acquisiti e praticati».

L’ambiente circostante ma anche abitativo. In questi rioni, la maggior parte dei ragazzi vive in case popolari. «Gli studi di psicologia ci insegnano che più lo spazio fisico è limitato, più l’aggressività non viene controllata – sottolinea Di Gennaro – A questo si aggiunge il fatto che in questi territori manca lo spazio verde, un rapporto sano con la natura, mancano le attività culturali, sono territori che non offrono alternative. Sono realtà territoriali che hanno un contenuto criminogeno elevatissimo. È un respirare costantemente violenza. Abbiamo gli strumenti per rompere questo circolo vizioso criminale – conclude – ma non li utilizziamo». È un’analisi che non vuole annullare la ferocia di Caino, ma definirne i contorni e rimettere le colpe anche a chi orbita dentro e fuori i contorni della ferocia. Perché nessuno nasce Caino.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.