In materia di referendum sulla giustizia si è già acceso un notevole dibattito, come del resto accade sempre quando simili iniziative tocchino temi particolarmente “caldi”. E che la giustizia sia uno di questi è evidente, “oltre ogni ragionevole dubbio”. Nei dibattiti sulle iniziative referendarie c’è sempre un rischio: quello di confondere il merito politico con le questioni di legittimità giuridica della proposta. Sul merito politico, ovviamente ogni opinione è lecita. Proprio perché è politica la decisione che il corpo elettorale dovrebbe assumere nel momento in cui si andasse a votare.

Ma, come sappiamo, perché si possa votare il quesito referendario è necessario, per i promotori, superare una serie di ostacoli giuridici. La Costituzione, come interpretata dalla Corte costituzionale che giudica l’ammissibilità dei referendum, pone, infatti una serie di limiti anche sostanziali. Non si possono, ad esempio, promuovere referendum per abrogare norme costituzionali o per intervenire su determinate materie disciplinate dalla legge (amnistia e indulto, trattati internazionali, leggi tributarie o di bilancio). Il quesito, inoltre, dev’essere chiaro e omogeneo, cosicché gli elettori possano esprimere un voto consapevole. E via discorrendo. Il rischio a cui accennavo è che chi partecipa al dibattito utilizzi presunti limiti giuridici per rafforzare le proprie, legittime, contrarietà di merito. Ad esempio, nel caso dell’attuale iniziativa referendaria è stato autorevolmente (ma erroneamente) sostenuto che sarebbero costituzionalmente inappropriati i referendum sulla magistratura, in quanto ne minaccerebbero l’indipendenza garantita dalla Carta fondamentale.

L’onestà intellettuale, in un dibattito così cruciale, vorrebbe invece che i due piani si tenessero chiaramente distinti, e si evitassero gli argomenti “a effetto”, soprattutto da parte degli esperti, la cui responsabilità, nell’aiutare i cittadini a capire e scegliere liberamente, è importantissima. Per questo non convincono affatto le perplessità di Piercamillo Davigo sull’ammissibilità del referendum relativo alla responsabilità civile dei giudici. Davigo infatti ritiene che la previsione di una azione diretta del cittadino nei confronti del singolo magistrato renderebbe il quesito inammissibile. L’unica reazione possibile di fronte al danno causato da dolo e alla colpa grave del magistrato sarebbe quella di rivolgersi allo Stato (solo questo potrebbe poi “rivalersi” sul magistrato). L’azione diretta invece determinerebbe una illegittima “personalizzazione” della responsabilità, tale da intimidire il magistrato e da potere persino indurlo a “svendere” la propria indipendenza. In particolare, poi, la giurisprudenza costituzionale, riferita ai principi di indipendenza della magistratura, conforterebbe questa lettura critica e sbarrerebbe la strada alla soluzione proposta dai promotori dell’iniziativa.

Nessuno di noi può sapere cosa deciderà la Corte costituzionale sul punto. I precedenti, però, offrono alcune indicazioni che vanno in direzione opposta a quella preconizzata da Davigo. Innanzitutto perché di responsabilità “diretta” dei pubblici funzionari (tra cui i magistrati) parla espressamente l’art. 28 della Costituzione, mentre manca qualsiasi deroga “espressa” a tale disposizione negli articoli che si occupano della magistratura. Inoltre appare difficile che la Corte costituzionale tradisca un proprio precedente specifico. Con la sentenza 26 del 1987, la Consulta ha già ammesso, come ricorda lo stesso Davigo, un referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Un referendum che, peraltro, aveva una portata assai più estesa, in quanto, puramente e semplicemente, abrogava le norme del codice civile (art. 55, 56, 74 ) che limitavano la responsabilità civile dei magistrati rispetto agli altri dipendenti pubblici. In quella sentenza, peraltro molto breve, la Corte sottolineava due aspetti assai importanti.

Innanzitutto (riprendendo anche un precedente del 1968) affermava che l’art. 28 della Costituzione stabilisce un “principio generale” che rende tutti i pubblici funzionari “sia pure magistrati (…) personalmente responsabili”. In secondo luogo, sebbene riconoscesse che la Costituzione ammette che la “responsabilità sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni” (in particolare con riferimento alla magistratura), la Consulta affermava chiaramente che, in questo campo, non esiste una scelta “obbligata”, per cui il referendum non incontrerebbe il limite di intervenire su norme “a contenuto costituzionalmente vincolato”, così da dover essere dichiarato inammissibile. Insomma, non è opportuno soprattutto in presenza di tali precedenti (e se si vuole, con onestà intellettuale, contribuire al dibattito), tirare per la giacchetta il giudice costituzionale. È sufficiente dichiararsi, nel merito, contrari al referendum. E anche per Davigo è assolutamente lecito schierarsi politicamente contro. Ancor meglio se facendolo da cittadino, più che da “esperto”.