«Enrico Letta farebbe bene a guardare a un campo davvero largo che ottiene buoni risultati elettorali senza occultare o rinnegare la propria identità di sinistra: è Nupes, il campo che si è realizzato in Francia attorno a Mélenchon. E se questo gli pare un po’ troppo azzardato, guardi alla Germania. Da noi non si deve dire né socialdemocratico né socialista e tantomeno comunista. Invece in Germania è cancelliere il capo del partito di Marx e di Engels che si chiama partito socialdemocratico, la Spd. Non solo. Accanto a sé una formazione che non sta nel governo ma che in una parte della Germania continua ad avere un buon risultato, ed è Die Linke, che è l’erede rinnovata del Partito socialista unificato della Germania Est. C’è una parte della società tedesca che si riconosce in questa formazione che si colloca addirittura a sinistra della socialdemocrazia». Così Luciano Canfora, filologo, storico, saggista.

Professor Canfora, come legge i risultati delle amministrative del 12 giugno?
Stranamente questa volta non ho visto sui giornali delle notizie complessive che diano il quadro sintetico del risultato, tale da aiutare il lettore a capire chi ha vinto e chi ha perso. Invece c’è una tale frantumazione, città per città, comune per comune, con i colori che cambiano, per cui capire come è andata non è facilissimo. E i titoli stessi sono molto strani. Leggevo, ad esempio, un titolo che recitava, più o meno: prevale il centrodestra, trainato dalla Meloni. Nella stessa pagina, però, leggo una intervista di Letta che dice: noi al primo posto. Il campo largo è stato un bel successo. Allora comincio a temere che abbiano vinto tutti e due. Il che probabilmente non è possibile. Ma la confusione mentale, l’assenza di una sintesi critica dei risultati, contribuisce a dare poi queste contraddittorie informazioni. Morale della mia considerazione: l’impressione che ho ricavato è quella che da tempo mi sembra di essere giunto a comprendere…

Vale a dire?
Che abbiamo una marcia non dico trionfale ma molto coronata da successo, dell’unico partito che è riuscito a tenersi fuori dall’attuale maggioranza di governo, cioè Fratelli d’Italia, con un piede, però, “atlantico”, molto marcato.

Perché questo?
A mio avviso per una ragione che non è neanche opportunistica, in quanto affonda nella storia della destra italiana. Una destra che è stata da subito filo-atlantica. Mi ricordo manifestazioni con il defunto Caradonna che inneggiavano al Patto atlantico, portatore di libertà. Una parola usata dall’estrema destra con una certa impudenza, ma tant’è. La Meloni non ha fatto una scelta così capricciosa. Ha proseguito nella tradizione della destra italiana schierandosi in maniera nettissima con la Nato in questa guerra. Questo valore in più ha contribuito al successo, punto di domanda. Non lo so, perché anche l’altro partito iper Atlantico è il Pd e non mi pare che abbia avuto un risultato particolarmente felice. Il succo è: Giorgia Meloni si candida a diventare, semmai si voterà nella primavera prossima, a Primo ministro.

A proposito di campi larghi. Lì dove è stata sperimentata un’alleanza organica tra Pd e Movimento 5Stelle, penso a Palermo, le cose non hanno funzionato molto bene. I 5Stelle sembrano ormai condannati a un inesorabile declino.
Questo lo si capiva da tempo. Tra l’altro sono talmente divisi al proprio interno, tra una persona ragionevole come Conte e una persona senza principi come Di Maio, da contribuire fortemente al declino della propria forza politica. Declino nato dall’incapacità di prospettare un programma di governo, di essere coerenti, prima si alleano con Salvini poi si abbracciano con Zingaretti, tutto questo lo sapevamo. Una tale disinvoltura demolisce un partito. Ma a questo si aggiunge la lacerante divisione interna. Che non è soltanto tra due persone – Conte e Di Maio – che non si sopportano a vicenda e che non fanno niente per mascherarlo, ma è proprio un cozzare di due orientamenti diversi. Conte sembra avere a cuore quel cattolicesimo attento ai problemi sociali, una specie di democristiano di sinistra, tanto di cappello. L’altro, Di Maio, non si capisce. È dedito a che cosa? Al posto di ministro in quanto tale, sempre, comunque, dovunque e con chiunque… Per lui stare al governo più che un obiettivo sembra essere diventato un fine ultimo, un imperativo assoluto. Ora si scopre pure “centrista”. E gli stracci bagnati che stanno volando alla vigilia della discussione in Parlamento sull’invio di altre armi all’Ucraina, fotografano perfettamente uno scontro nei 5 Stelle che appare difficilmente sanabile, tanto che la scissione sembra apparire come il minore dei mali rispetto alla dissoluzione. Espulsioni annunciate, poi “congelate”, vertici interminabili quanto inutili, penultimatum a lunga conservazione: che fine trista per un movimento che voleva aprire il parlamento come una scatola di sardine e ora tutti lì a pretendere o pietire una ricandidatura. Ora anche Fico “spara” su Di Maio dichiarandosi, anche a nome di altri pentastellati, “arrabbiato e deluso per i suoi attacchi che non comprendo”. E se non li comprende lui… Come non bastasse, ecco agitarsi dall’esterno la voce del Di Battista che si richiama alle origini movimentiste dei pentastellati. E questo nuoce ulteriormente, perché dentro quel partito, sia nel corpo parlamentare e organizzativo, sia tra gli elettori, quella, del richiamo alle origini, è una sirena di una certa efficacia che contribuisce allo sgretolamento. Aggiungiamo poi un altro elemento mica di poco conto…

Quale, professor Canfora?
Quando Enrico Letta diventò segretario del Pd, disse una cosa molto strana, molto imprudente, e cioè, in buona sostanza: sì guardiamo ai 5Stelle come alleati però comandiamo noi. Siamo noi a dare la linea. Ora, credo che nessuno accetti una impostazione di tal genere in vista di una collaborazione data per diseguale dal primo momento. Questo “campo largo” mi pare che sia per ora in mente Dei, come si suol dire. In quanto l’alleato che sembrava ovvio non gode di buona salute, tutt’altro, e per giunta viene pure trattato duramente, ad esempio sulla questione delle armi. E dall’altro, lo sguardo nostalgico va verso Calenda e Renzi. Se poi il “campo largo” comprende anche la Meloni, è talmente largo che sembra i cartografi dell’impero di Borges. C’è chi scrive che i due partiti che dovrebbero andare d’accordo per il futuro governo, sono il Pd di Letta e Fratelli d’Italia di Meloni. Forse è una boutade. Ma guardare a Renzi e Calenda che hanno un loro disegno autonomo di tipo centrista, significa parlare del nulla. Qui più che “largo”, il campo mi pare alquanto accidentato, per non dire altro.

Mentre in Italia ci si arrovella su chi possa essere il “Macron del belpaese”, in Francia, l’originale prende una sonora batosta alle elezioni per l’Assemblea Nazionale, perdendo di molto la maggioranza assoluta. A diventare la prima forza di opposizione è l’alleanza di sinistra Nupes di Jean-Luc Mélenchon. Di grande rilevanza politica è anche la crescita del Front National di Marine Le Pen. Che lezione trarre, anche in chiave italiana, dal voto francese?
Una lezione per essere recepita dovrebbe essere anzitutto compresa. Dell’etereo e indefinito, anche perimetralmente, centrosinistra nostrano non saprei dire. Parliamo più chiaramente di Enrico Letta e del Pd. Dovrebbero imparare che la politica ultramoderata, di sgabello ai moderati, non rende. E invece quella più autentica rende. Come dimostra la vicenda francese. Sapranno imparare questa lezione? Non lo so. Sta di fatto che gli organi di stampa di casa nostra, ma un po’ anche quelli di destra francesi, preferiscono parlare di questo problema in termini goliardico-offensivi, insultanti. Mélenchon, che è semplicemente un buon socialista che vuole qualche riforma sociale molto seria, viene definito il “Chavez della Gallia”. E noialtri dietro. Vuol dire che non c’è la volontà di capire. Vale per costoro il detto latino Quos Deus perdere vult, dementat prius, la divinità toglie il senno a coloro che vuole mandare in rovina. Speriamo che il senno ritorni nelle teste dei nostri leader politici del presunto centrosinistra.

Il voto francese, ma per altri versi anche quello che c’è stato in Germania e nelle presidenziali negli Stati Uniti, prima con Trump e poi con Biden, non smontano la narrazione secondo la quale per vincere bisogna spostarsi al centro?
Il teorema “conquistare il centro” per vincere le elezioni, è stato definitivamente archiviato da molte esperienze elettorali, non solo queste ultime. Ma anche in questo caso, le radici stanno nella volontà di perdere completamente le proprie matrici culturali da parte della ex sinistra. Per restare ai motti latini, sempre da tenere a mente, qui da noi ci stiamo rapidamente avvicinando, se non l’abbiamo già superato, al sempre attuale errare humanum est, perseverare autem diabolicum.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.