Il "partito del però"
Andreotti, Berlusconi e Mori assolti: la rabbia degli sconfitti

Non sarà stato nelle intenzioni, fatto sta che il comunicato con cui il Presidente facente funzioni del tribunale di Milano Fabio Roia ha spiegato le motivazioni “di carattere esclusivamente giuridico” alla base dell’assoluzione di Silvio Berlusconi e gli altri 28 imputati, ha aperto la strada al solito “Partito del però”. E suscitato la comprensibile reazione dell’Ordine degli avvocati milanesi, che hanno imputato a quel comunicato la responsabilità di aver indotto parte della stampa alla traduzione in “cavilli”, il termine dispregiativo con cui si definiscono i diritti e le procedure quando non piacciono. Ogni sentenza ha carattere giuridico, dicono gli avvocati. Ma il “però” è sempre in agguato.
Berlusconi è stato assolto, però. Anche il generale Mori era stato assolto, però. E così anche Andreotti fu assolto, però. Il partito dei “però” è il più longevo e il più duro ad arrendersi. Si compone di quel mondo politico, giudiziario e giornalistico che ha fiducia nella giustizia e crede nelle sentenze purché siano di condanna. Quando i giudici assolvono, improvvisamente ci si dimentica di quale sia il compito del processo penale, di verificare se un certo fatto sia configurabile come reato e nel caso se gli imputati l’abbiano o meno commesso e se siano colpevoli o non colpevoli. Il partito dei “però”, davanti a una sentenza non gradita, è pronto a dimenticare di aver impegnato come una clava le inchieste penali per combattere l’avversario politico.
Accantona quindi con fastidio la decisione dei giudici e si appella a responsabilità politiche o peccati morali per emettere comunque la propria sentenza di condanna. E anche quando, come fa il giornalista di Repubblica Carlo Bonini, che ha comunque alle spalle una solida cultura dei diritti come fu quella del manifesto prima che diventasse grillino, si denuncia questo tipo di comportamento, lo si attribuisce al “Paese”, invece che alla sinistra politica, giudiziaria e giornalistica. O magari al quotidiano in cui lui stesso lavora. Non era il Paese, quello delle dieci domande a Berlusconi. E non era il Paese a ospitare interventi di magistrati o ex toghe che, non potendo accettare il fatto che la sentenza d’appello di Palermo del processo “Trattativa Stato-mafia” avesse incenerito le ipotesi accusatorie dei più famosi pm “antimafia” come Ingroia, Di Matteo e Scarpinato, spiegavano che comunque la trattativa c’era stata.
Ma il reato di attacco a un corpo dello Stato, di cui erano accusati il generale Mori, Marcello Dell’Utri e gli altri imputati, si era verificato o no? Era stato commesso oppure no? No, dice la sentenza della corte d’appello di Palermo. Si ma, risponde il partito dei “però”. Per esempio, prendiamo a sinistra (ma anche la destra non ne è immune) due giovani come Elly Schlein e Pierfrancesco Majorino, i quali per motivi anagrafici dovrebbero essere più freschi e meno condizionati nei loro giudizi. Non è così. La prima che rivendica la propria giovane età come argomento politico nella scalata al vertice del Pd, usa la sentenza di assoluzione di Berlusconi per dargli la bocciatura politica in quanto “espressione di una classe politica attaccata al potere”.
Come se candidarsi alla segreteria di un partito significasse andare a raccogliere margherite nei campi. Quanto a Majorino, aspirante sindaco di Milano, reduce dalle elezioni regionali in cui gli elettori hanno bocciato proprio il fulcro della sua campagna contro la sanità lombarda, premiando il governatore Fontana nei luoghi più colpiti dalla pandemia, l’ha buttata sull’attacco alla persona. Ha dipinto Berlusconi come “utilizzatore finale” e ha parlato di ”enormi ombre sul profilo etico e morale”, che resterebbero appiccicate per sempre sull’ex presidente del consiglio. Se questi sono i giovani leoni che vorrebbero scalzare la vecchia guardia del loro partito, vien da dire ridateci D’Alema e Occhetto. Ma è una storia che viene da lontano, e non ha solo protagonisti politici.
Era il 23 ottobre 1999 quando il tribunale di Palermo assolse in primo grado Giulio Andreotti dall’accusa di associazione mafiosa perché ”il fatto non sussiste”. L’accusa, rappresentata in aula da Roberto Scarpinato, aveva chiesto quindici anni di carcere. Fu un uragano nel mondo intero. La Cnn aveva interrotto i suoi programmi con una breaking news, comunicando l’assoluzione in tempo reale. Lo stesso la Bbc, e anche la versione online del New York Times e addirittura dell’agenzia cinese Xinhua. Era stato un colpo al cuore per un certo mondo di antimafia militante ben più significativo di quel che sarebbe successo negli anni successivi con il fallimento del processo “Trattativa”.
L’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Andreotti, aveva reagito d’impeto: “Era stato definito il processo del secolo, ora dovrà essere ricordata come l’ingiustizia del secolo”. Ma il partito dei “però” era stato altrettanto pronto a emettere la propria sentenza. Il tris dei procuratori palermitani, prima di tutto, il capo Pietro Grasso, l’aggiunto Guido Lo Forte e il pm d’aula Roberto Scarpinato. Tutti a rivendicare la fondatezza dell’accusa, e a ricordare, quasi gettandolo in faccia al personaggio politico, il fatto che lo stesso Senato della repubblica non avesse ravvisato nell’attività delle toghe alcun “fumus persecutionis” e avesse concesso l’autorizzazione a procedere. Certo, si era nel bel mezzo del 1993, ed era pressoché impossibile dire di no alla magistratura e al procuratore Caselli, anche se lo stesso Andreotti, nella sua veste di presidente del consiglio, aveva contribuito a una notevole attività di governo contro la mafia.
Pur se nel più totale sfregio dello Stato di diritto. Ma, anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione nel 2004, si aprivano a valanga i commenti sul “però”, perché Andreotti era stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa per gli anni successivi al 1980, mentre per i fatti degli anni precedenti era scattata la prescrizione. Che, nel corso del tempo, si era trasformata in responsabilità sicura. Di che cosa quindi stupirci oggi se il partito del “però” vuole a tutti i costi Berlusconi colpevole?
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