I pacifisti nonviolenti europei hanno dato un ultimatum a Putin, a Zelensky e a tutti i Paesi che stanno fornendo loro armi: cessate il fuoco entro il 25 marzo o raggiungeremo in lunghe carovane le zone di conflitto, inermi ma non inerti. L’idea è nata nell’ultimo forum del Movimento umanista, che ha anche chiesto all’Onu di mandare forze di pace ad accompagnare le marce, ed esprime lo slancio generoso di chi non si rassegna al peggio solo perché il peggio, su carta e anche su terra, è oggettivamente schiacciante. Gli umanisti nonviolenti seguono l’insegnamento dell’Abbé Pierre: «Sono dei leoni e noi siamo una pulce. È per questo che siamo più forti di loro: una pulce può mordere un leone, ma un leone non può mordere una pulce».

Meglio le marce di nulla, certo, ma la nonviolenza non può limitarsi a questo. Perché si assiste scoraggiati a un voltafaccia assurdo da parte degli stessi che fino a ieri dicevano “guerra mai”, sfilavano con le bandiere della pace nelle piazze e ricordavano che il ripudio della guerra è anche in Costituzione, oltre che nello statuto delle Nazioni Unite in cui si dice che la guerra è un crimine e bisogna bandirla, e oggi tifano. E accettano la logica della guerra. Da una parte: ma l’Ucraina è stata attaccata, invasa, non dovrebbe difendersi? Dall’altra: hanno portato Putin a questo, è colpa dell’America, si sente accerchiato e si sta difendendo, non può accettare che l’Ucraina entri nell’orbita Nato, l’Ucraina è russa. Come fosse una novità che le guerre scoppiano perché tutti sono posseduti dalla rabbia di aver ragione, e in qualche modo, ad ascoltarli, nella logica della sicurezza, della potenza e degli interessi economici, davvero questa ragione ce l’hanno. Niente che non sia accaduto nei secoli dei secoli, dunque.

L’identità di un popolo che si riconosce nel nazionalismo, nell’ampiezza dei suoi territori, nella capacità di contare a livello internazionale, il che significa poi nient’altro che la capacità di mettere paura a quelli che oggi forse sono amici, ma mai si deve dimenticare che domani potrebbero diventare nemici. Una logica antica, che nessun progresso scientifico e tecnologico, nessuna catastrofe umanitaria, nessun orrore perpetrato nel corso di tutta la storia ha potuto scardinare. Però, sporadicamente e per opera soprattutto di religiosi fino all’800, e più incisivamente nel secolo scorso, opposizioni pacifiche alla prepotenza e al sangue ci sono state, anche prima che venisse coniato il termine “nonviolenza”. Hanno indicato strade. Hanno dato risultati. Solo alcuni esempi, tra i tanti. Nel 1909, le donne spagnole si distendono sui binari davanti ai treni che trasportano le truppe per la guerra colonialista contro il Marocco (agghiacciante il film El laberinto marroquì del regista Julio Sanchez Vega, sul colonialismo spagnolo agli inizi del XX secolo in Marocco e la successiva – paradossale – partecipazione di truppe marocchine nella Guerra Civile spagnola, dalla parte di Franco).

Il 20 febbraio del 1942 diecimila professori norvegesi per protesta contro l’invasione avvenuta due anni prima, imbucano tutti insieme una lettera di dimissioni, e quattro giorni dopo lo stesso fanno i vescovi. Molti di loro vengono imprigionati, le scuole si riaprono, ma gli insegnanti che hanno ripreso il lavoro fingono di essere stupidi, di non capire gli ordini, e paralizzano il normale svolgimento delle attività chiedendo spiegazioni infinite. Il governo fantoccio di Quisling è disorientato e furioso ma non sa come procedere, per cui a un certo punto i prigionieri vengono riportati a casa, accolti da ovazioni. Settembre 1943, nella Danimarca già occupata i nazisti danno il via alla deportazione degli ebrei, e allora ha luogo la più grande operazione di salvataggio mai messa in atto, operazione in cui si adoperano membri della Resistenza, religiosi, poliziotti e cittadini di ogni classe sociale. Oltre settemila ebrei vengono nascosti o trasferiti in Svezia. Ma non basta. Quando gli ebrei erano stati obbligati a portare la stella gialla, il re se l’era appuntata ed era andato a passeggiare per le vie della capitale esibendola, imitato subito da moltissimi non ebrei.

E poi un episodio pochissimo ricordato: in Olanda, quando il direttore di un teatro venne obbligato dagli occupanti a salire sul palco e chiedere agli ebrei presenti di uscire, altrimenti il sipario non si sarebbe alzato, uscirono tutti, e la sala restò vuota. Episodi circoscritti certo, ma importanti perché dimostrano che si può fare. Oggi andrebbero studiate linee guida, e poi tattiche precise che rispondano alle situazioni particolari. Non solo pensiero nonviolento, che per essere veramente efficace dovrebbe venire applicato in vari settori della società, dall’educazione all’agricoltura, dalla giustizia agli allevamenti, ma azione nonviolenta, da decidere di volta in volta soprattutto nel caso di conflitti armati.

È necessario e urgente creare un centro studi permanente che analizzi la politica internazionale e con lungimiranza possa mettere a punto strategie nonviolente prima ancora che scoppino le guerre. Quelle guerre in cui è inutile continuare a chiedersi chi abbia ragione e chi torto, perché, come disse Lanza del Vasto, causa della guerra è lo spirito di giustizia, e più da entrambe le parti ci si sente nel giusto, più vengono giustificate le atrocità. Può sembrare insopportabile, oggi, non schierarsi. E infatti non è una chiamata a tifare, quella a cui dobbiamo rispondere, perché i morti ci sono da entrambe le parti e seguire ancora la logica della forza delle armi non farà che causarne ancora. È tempo di cambiare prospettiva. Danilo Dolci: «Quello che oggi ci appare imbattibile è tale solo perché non c’è una vera alternativa».