Storia e opere degli inquilini del Quirinale
Da De Gasperi a Mattarella, il Quirinale diventa il baricentro del Paese

Per capire meglio cosa ci può attendere agli inizi del 2022 con l’elezione del presidente della Repubblica vale la pena nelle prossime settimane di rileggere i due bei volumi curati da Sabino Cassese, Giuseppe Galasso (scomparso verso la fine del lavoro) e Alberto Melloni, editi dal Mulino nel 2018: I Presidenti della Repubblica. Il capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana.
È impossibile raccontare in modo esauriente un’opera di 1269 pagine, ma è tuttavia ragionevole offrirne qualche schizzo che metta curiosità e spinga a una lettura che risulterà quanto mai stimolante. Per Cassese, nonostante i timori dell’uomo forte che ne impedirono soprattutto l’elezione popolare diretta (come segnala anche Galasso), il presidente, anche grazie ai poteri non irrilevanti riconosciutigli nel testo della Costituzione, è subentrato ormai da tempo ai partiti nel ruolo di stabilizzatore dei governi. Si tratta dell’evoluzione che due autori d’Oltralpe, Philippe Lauvaux (belga) e Armel Le Divellec (francese) indicano come “correttivo presidenziale” della forma di governo parlamentare italiana. I costituenti «hanno provvisto governi claudicanti di un bastone, anche se essi non pensavano probabilmente che giungesse fino ad assicurare legittimazione a governi senza forte appoggio parlamentare» (p. 52).
Seguono poi tutti i ritratti, da De Gasperi, il primo ad esercitare per poche settimane le funzioni di Capo dello Stato provvisorio subito dopo il referendum istituzionale, fino a Sergio Mattarella. Già dalle ricostruzioni sulla presidenza Einaudi (con la nomina di Pella senza consultazioni in seguito al mancato scatto del premio della legge maggioritaria del 1953) e poi su quella Gronchi (con la faticosissima apertura al centro-sinistra), emerge chiaramente che già all’epoca «l’attivismo presidenziale dipendeva soprattutto dalla sostanziale paralisi di un parlamento senza maggioranza» (Giacone, p. 172). Quanto alla presidenza Leone stupisce poi la consapevolezza dell’irreversibilità della legge sul divorzio (fu mediatore in Senato del suo passaggio), e degli effetti negativi sulla tenuta della maggioranza e della legislatura che avrebbe avuto il referendum promosso dai settori cattolici più intransigenti: il quale determinò il primo scioglimento anticipato della storia repubblicana.
Quanto alla presidenza Cossiga emerge la centralità di una lettura delle questioni geopolitiche e strategiche: quella lettura che lo avrebbe portato, qualche anno dopo la fine del mandato, a permettere e sostenere la formazione del governo D’Alema, anche in contatto con l’ambasciata americana, in quanto ritenuto il solo in grado di reggere l’impatto dell’intervento militare contro la Serbia (“adempiuto a questo compito, [Cossiga] trovò rapidamente un pretesto per… tornare a giocare da solista”, Galavotti, p. 352). Una capacità di comprensione e di preoccupazione per le vicende internazionali e ancor più europee che ritorna nelle scelte di Giorgio Napolitano descritte da Pons (specie alle pagine 459 e 460), accanto alle relazioni con la Chiesa cattolica italiana e con la Santa Sede descritte con dovizia di particolari da Melloni.
La storia però non è deterministica. E il volume ci offre qua e là qualche caso di ipotesi alternative di sliding doors. In particolare mi hanno impressionato le parole di Moro riportate da Mastrogregori (pp. 803 e 804). Alle Brigate Rosse, negli interrogatori in prigionia, in relazione alla sua mancata elezione nel 1971, segnala che allora vi era stato “un mancato gradimento di ambienti internazionali di rilievo” anche in relazione alle potenzialità della carica, che potrebbe assicurare “quel raccordo con le direttive di uno Stato tecnocratico, di tono europeo”, mentre in precedenza all’ambasciatore Ducci aveva rimarcato il proprio rimpianto per le prestazioni di unità di sistema che da presidente avrebbe potuto fornire in modo utile (per “prevenire o colmare le fratture nel corpo della società”, p. 804): Moro aveva colto sin da allora quella debolezza dei partiti che molti avrebbero scoperto più tardi.
C’è più in generale da chiedersi perché il mutamento delle regole elettorali non sia riuscito a compensare lo sfaldamento del sistema dei partiti, facendo scivolare sempre di più la funzione di stabilizzazione della governabilità verso il correttivo presidenziale, come segnala Giannetto (p. 1075). Ovviamente ciò dipende dal carattere limitato di un intervento solo in materia elettorale, mai giunto, a differenza di quel che è stato possibile per comuni e regioni, a toccare le norme che regolano la forma di governo. C’è però da chiedersi se ciò sia dovuto anche ad alcuni intrecci particolari tra scelte presidenziali e sistema dei partiti.
Per esempio, penso alla difficoltà di coabitazione tra il presidente Scalfaro, il primo a dover interpretare la Costituzione in presenza di nuove leggi elettorali, e la maggioranza di centro-destra guidata dal primo Berlusconi del 1994; e penso, alle dimissioni del Presidente Napolitano, che intervennero prima che fosse messa in sicurezza l’intesa tra i due poli principali che sorreggeva il tentativo di riforma costituzionale del 2015-2016 (molto probabilmente il presidente emerito – legittimamente stanco – riteneva che la vicenda potesse considerarsi ormai chiusa; i fatti avrebbero dimostrato che purtroppo così non era). E siamo ritornati alla necessità degli altissimi correttivi…
© Riproduzione riservata