I decreti legge, come è scritto in un libro di recente pubblicazione, Io sono il potere – confessioni di un capo di gabinetto anonimo, «sono il bordello della Repubblica». Poco importa se oramai non corrispondono alla codificazione voluta dai padri costituenti. Rappresentano «la linea produttiva più efficiente della fabbrica delle leggi». «Il più delle volte il ministro ci chiede di fare una legge non perché la ritiene giusta. Non perché glielo chiedono le categorie interessate. Non perché serve al partito. Ma soltanto perché è di moda. Perché c’è bisogno di battere un colpo, di emettere un suono. Lo Stato deve far vedere ai cittadini che se ne occupa, che sa fare qualcosa. Un’altra legge, che si aggiunga alle altre duecentomila esistenti. Il ministro se la intesterà e se ne rallegrerà con il suo staff. Nessuno ne verificherà l’efficacia o anche semplicemente la reale applicazione. E la vita andrà avanti… in attesa della prossima finta emergenza».

Il ministro Bonafede doveva “battere un colpo, emettere un suono”, presentandosi alla Camera per l’informativa urgente sulla nomina del capo del Dap nel 2018, strattonato malamente nell’Arena mediatico-giudiziaria da Giletti e Di Matteo. Dinanzi al vuoto praticato nella gestione carceraria, “ci vuole un segnale”, avrà detto al suo staff in via Arenula. E segnale sia! Non uno. Ben due decreti legge; uno dopo l’altro, per frenare la bufala dell’anno: le scarcerazioni di massa dei boss della mafia. Poco importa se le misure adottate siano del tutto inutili. Poco importa se il linguaggio utilizzato per allontanare le ombre scaraventatagli addosso in tv o dagli organi ufficiali della stampa manettara rappresenti un attentato all’autonomia e indipendenza dei magistrati di sorveglianza o sia costituzionalmente sgrammaticato. Importava imprigionare le polemiche attraverso un dl inutile certo, ma con un chiaro monito: la difesa dei diritti dei detenuti in questo Paese non deve esistere. Siano essi condannati in via definitiva o siano in carcere ancora in attesa di giudizio.

Il tentativo di imbrigliare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati di sorveglianza è in atto da tempo. Come dimenticare, infatti, le bordate del solito Di Matteo sul Fatto Quotidiano o dei vertici istituzionali del Movimento 5 Stelle, all’indomani della sentenza “Viola” della Cedu, o ancora le insinuazioni di Davigo in tv, all’indomani della sentenza “Cannizzaro” della Corte Costituzionale, sulla natura arrendevole dei magistrati di sorveglianza dinanzi alle minacce mafiose, senza che un grido di protesta, tranne quello dei penalisti, si sia levato dai settori istituzionalmente preposti alla tutela dei magistrati. E oggi quei propositi si sono concretizzati. Con il dl 28 del 30 aprile si è stabilito l’obbligo, per la magistratura di sorveglianza, di chiedere il parere del «procuratore della Repubblica del Tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis, anche a quello del procuratore nazionale antimafia». Un atto di sfiducia verso coloro che devono decidere, ma anche verso la stessa Procura Generale chiamata già ad esprimersi sul punto.

Quindi, con il dl 29 del 10 maggio scorso, si è stabilita una farraginosa procedura di rivisitazione dei provvedimenti adottati nei confronti dei detenuti per mafia o sottoposti al 41 bis, per gravi motivi di salute connesse alla attuale emergenza sanitaria, che paralizzeranno gli uffici di Sorveglianza già gravemente carenti di personale e risorse. Nei quindici giorni successivi, i magistrati o i tribunali di sorveglianza saranno chiamati ad acquisire il parere del Procuratore Distrettuale Antimafia o del Procuratore Nazionale Antimafia (per i 41 bis) nonché sentire il presidente della Giunta regionale sulla situazione sanitaria locale, per verificare, così, la permanenza delle condizioni che hanno imposto la prosecuzione della detenzione presso il domicilio. Una interminabile filiera di pareri senza, però, alcuna interlocuzione con il difensore o con il detenuto gravemente ammalato.

O ancora il potere del Pm, per i detenuti in attesa di giudizio ammessi ai domiciliari, di operare una indagine tesa a rinvenire una struttura sanitaria carceraria e chiedere, così, al Gip di rimandarlo dentro. Ovviamente senza l’interlocuzione con la difesa. Non a caso Bonafede, presentandosi alla Camera, ha ribattezzato il dl in questione come la «migliore risposta dello Stato per garantire una stretta sulle richieste di scarcerazione», cancellando dall’art. 24 della Costituzione l’inviolabile diritto di difesa.