Il presidente del Consiglio si è proposto, sul piano europeo, come uno dei protagonisti dell’uscita dal ciclo dell’austerity che pure l’aveva visto ugualmente tra i suoi protagonisti. Draghi aveva saputo anticipare quella che sarebbe diventata la linea guida di una politica monetaria ed economica che si rese necessaria per evitare di precipitare in una recessione devastante. Le prese di posizione che hanno accompagnato la nuova fase sembra che abbiano delineato una sorta di riformismo del capitale, con il quale affrontare una transizione che il coronavirus, con le sue conseguenze economiche e sociali, ha reso obbligatoria. Quel che così viene occultata è la questione fondamentale, cioè la natura sociale e democratica della transizione. In altre parole, la risposta al tema sempre più esplosivo delle diseguaglianze. Ma essa andrebbe chiesta a ben altri e diversi protagonisti rispetto a quello che qui consideriamo.

Ora, le intenzioni che si possono attribuire a questo riformismo del capitale sono alla prova dei fatti, dacché Draghi è diventato capo del governo. Il suo governo ne è dunque un banco di prova, perciò non si può chiedere a questa verifica dei fatti di dare conto di una politica riformatrice, di abbattimento delle diseguaglianze, di mutamento dei rapporti di classe, di una nuova qualità dei rapporti tra le persone, e tra le persone, la produzione e la riproduzione sociale, tra tutto questo e la natura. Questo campo di intervento è, per scelta dichiarata, fuori da queste verifiche. La mia proposta di razionalizzazione e ristrutturazione efficientistica dell’economia ne è addirittura un’alternativa. Né gli si può chiedere di ricalcare, rinnovandoli certo ma in coerenza con quelli, i passi dei riformismi dei tanto citati anni della ricostruzione. Basti pensare, per ricordarli, che una delle sue figure di maggiore spicco, Pasquale Saraceno, poteva stupire chi lo ascoltava sostenendo che «vale di più un piano quinquennale che cento keynesismi di giornata».

Ma quello che chiamiamo il riformismo del capitale è invece appropriatamente assumibile come cartina di tornasole del governo Draghi. È una sorta di prova del budino. Si dovrebbe vedere se esso prende corpo oppure se, come suo fratello, il riformismo politico, resta sempre inchiodato all’annuncio che può anche accompagnare singoli episodi, ma mai una politica generale. La collocazione internazionale del governo è quella scelta come naturale, è la collocazione euro-atlantica, adottata un po’ troppo banalmente. Le sollecitazioni sull’Italia che provengono dal Mediterraneo e dal vicino Medio Oriente sono assai forti. Due sono state affrontate nei giorni scorsi: la Turchia e la Libia. Draghi ha definito Erdogan un dittatore, premiando così la sostanza sulla forma. L’atto ha avuto un’eco ragguardevole, com’era giusto, ma l’Italia condivide per statuto e per scelta, ancora sottolineata dal nostro premier, la politica europea. Giusta l’indignazione per l’offesa alla dignità di una donna e di un’istituzione, ma Michel e von der Leyen ci rappresentano come paesi e come popoli.

Nello stesso tempo dell’ingiuria, Erdogan si stava impegnando a mettere fuorilegge il principale partito di opposizione, quello più vicino alla causa curda, e proseguiva ad arrestare e a mettere in carcere i critici del governo. Per non parlare dello scandalo internazionale taciuto e costituito dalle condizioni inumane in cui continua a versare, racchiuso in un carcere di isolamento, Öcalan. Questi silenzi condannano un’intera politica. Sulla Libia, addirittura, il presidente del Consiglio ha ringraziato «per i salvataggi». Il fatto che il Paese sia una delle principali riserve petrolifere dell’Africa non dovrebbe costituire uno scudo per tacere che i centri di detenzione libici per migranti sono luoghi di sistematici abusi e torture e che la guardia costiera libica fa da corona protettiva e di alimentazione di donne, uomini, bambini per quei luoghi di tortura. L’Italia continua a finanziarla. L’Italia del governo Draghi continua a tacere come tace l’Europa. Difficile non pensare che la produzione e il traffico di armi ne siano le cause non secondarie. Ovviamente, appena se ne parla criticamente si tirano subito in ballo l’economia e l’occupazione.

Eppure, se si parla di ecologia integrale forse si dovrebbe pensare, anche secondo costituzione, a una politica di pace e di riconversione dell’economia bellica, invece di proseguire sempre sulla vecchia strada. L’alleanza euro-atlantica, così interpretata, non è una contraddizione palese, con un’ipotesi anche di un riformismo che vorrebbe a suo fondamento la razionalizzazione efficientistica del sistema e il rispetto dei diritti già riconosciuti dalla legge? Il governo ha comprensibilmente messo al centro del suo programma la vaccinazione contro il coronavirus, assolutizzando il problema dell’efficacia dell’azione pubblica, ha adottato misure politiche e amministrative considerevoli, ha cambiato vertici dell’organizzazione preposta al compito, richiamando anche generali dell’esercito. Ancora comprensibilmente le cose non sono andate molto diversamente da prima e, non qualitativamente, diversamente dagli altri paesi europei. Sicché si confrontano le tesi più diverse su chi stia meglio o meno peggio, tesi che poi cambiano con la registrazione degli adeguamenti delle misure di contrasto e dei mutevoli andamenti nel corso dell’epidemia.

Non mi pare il caso di insistervi, né per condannare, né per assolvere. Vale invece la pena di rilevare il fallimento complessivo dell’Europa in una vicenda drammatica per la vita delle sue popolazioni e, in solido, il fallimento di tutti i Paesi che la compongono. La ragione è che la ricerca affannosa di efficienza non può cancellare, per il mondo intero e per ogni sua parte, l’handicap insormontabile nel non aver intrapreso una battaglia politico-istituzionale a fondo per la sospensione dei brevetti e per la messa a disposizione in tutti i Paesi, a partire dai più poveri, della possibilità di produrre e distribuire i vaccini, come ha chiesto, ancora senza successo, la parte più avvertita della comunità scientifica. L’opposizione delle Big Pharma, che stanno costruendo una gigantesca fortuna, non può essere considerata come una causa impedente. Non è solo un’istanza di uguaglianza delle persone di fronte al rischio universale della pandemia, è anche una questione di efficacia della lotta per debellarla. Per essere tale, infatti, essa deve essere a disposizione di ogni parte del mondo e di tutti.

Anche in Italia, la questione sociale, aggravata dal virus, si incancrenisce e si estende. Non considero nell’economia di questo ragionamento, per le ragioni dette in premessa, la questione più generale delle povertà e delle diseguaglianze prodotte strutturalmente da questo sistema economico-sociale. Basti invece vedere quello che sta accadendo con l’esplosione di proteste, di rabbia e di rancori per farsi un’idea della dinamica che i fatti stanno imprimendo alla realtà. Oggi, sono protagonisti della protesta, ristoratori e commercianti, colpiti dalle chiusure e dalle incertezze sul futuro, mentre i poveri restano ancora più poveri e aumentano in numero, toccando aeree sociali finora escluse da questo dramma. Una coperta stretta coverebbe ancora più la rabbia sociale e aprirebbe conflitti orizzontali devastanti.
La coperta si può però allargare subito, chiamando a concorrervi, con il fisco, la parte più ricca e ultraricca della popolazione, incidendo sulle rendite e sui profitti.

Biden è politicamente collocato in un campo assai prossimo a quello che qui indaghiamo. Ha versato una barca di soldi in sussidi e aiuti, ha provato ad aumentare il salario minimo, ha aperto un fronte fiscale contro le grandi potenze dell’high-tech, ma contemporaneamente si propone da subito di intervenire, aumentando il prelievo fiscale sul profitto dal 21% al 28%, sempre meno di quanto era prima di Obama, ma capace di indicare una tendenza. Una tendenza che si propone di aumentare il prelievo complessivo di 2.5000 miliardi di dollari in quindici anni. L’inazione del governo Draghi sul terreno distributivo, anche solo riferito al periodo più acuto del virus, fa chiedere cosa sia in realtà questo suo riformismo.

Per ora, sembra soltanto nella sua pratica attuazione, un soccorso a un sistema economico che genera la crisi nel momento in cui quella da virus rende tutto più difficile e più carico di incognite. Ovviamente, nessuno dimentica gli interventi che pure sono forniti per lenire i disagi della popolazione più colpita dalla mancanza di futuro. Mentre ancora milioni di lavoratori rischiano di perdere il posto di lavoro nella crisi, già si parla di una ripresa senza occupazione. Il banco di prova si ingigantisce. Cosa suggerisce l’eredità di Federico Caffè, quando il mercato e l’impresa non sono più capaci di generare lavoro e buona occupazione?

Avatar photo

Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.