Un mese fa a immediato ridosso dell’insediamento del governo Draghi è stato pubblicato l’appello “unire i riformisti” promosso da una trentina di personalità politiche e culturali accomunate dalla comune appartenenza a uno spazio politico e ideale che può essere riassunto nelle espressioni di “Liberalismo democratico”, di “liberalismo progressista” e di “socialismo liberale”, entrate ormai nel lessico della politica italiana. Al di là degli sforzi degni di miglior causa di quanti si affannano a dire che la parola riformista abbia perso ogni significato, in realtà è del tutto evidente come il riformismo, inteso come pratica dell’agire politico, ma anche come concezione della società, sia racchiuso nel campo di forze che si richiamano alla tavola di valori implicita in quelle definizioni.

Quell’appello era stato concepito nel clima plumbeo del progetto del Conte III che rappresentava l’estremo sforzo della suggestione populista, che aveva pervaso anche il gruppo dirigente del Pd, di sopravvivere alla sua crisi – speriamo irreversibile – che si stava delineando a livello mondiale con la vittoria di Biden negli Usa, la frattura tra Orban e il Ppe, la crisi di popolarità di Bolsonaro e Maduro, la vittoria della socialdemocratica Sanna Marin nelle elezioni finlandesi, il successo strepitoso dei verdi e il forte ridimensionamento delle destre populiste nelle ultime elezioni tedesche e austriache e la stabilizzazione della democrazia spagnola attorno al partito socialista di Sánchez, dopo una lunga stagione di turbolenze.

Dietro la cupa affermazione di “Conte o morte” emergeva l’estremo sforzo di trasformare in una alleanza stabile e organica di carattere demopopulista il governo Conte II nato invece come tentativo di costruire una “grande coalizione” seppur improvvisata, dopo la crisi del Conte I esplosa nell’estate del 2019. Tutta l’esperienza del Conte II era stata segnata dal tentativo di dare consistenza a quel progetto, tanto più ideologico e politicista quanto più emergevano le difficoltà della “maggioranza nella maggioranza” 5S, Pd, Leu di tradurlo in effettivi indirizzi di governo sia sul versante della lotta antiepidemica, sia su quello del Recovery Fund. Nel crescente immobilismo dell’esecutivo da un lato si consumava il fallimento dell’alleanza tra un Pd ridotto a brutta copia del corbynismo, disintegrato dalla destra liberale in Gran Bretagna, e il populismo anticasta del M5s normalizzato dal governismo di Di Maio e Grillo, ma emergeva dall’altro l’incompatibilità tra riformismo e populismo per l’incapacità di quest’ultimo di essere un effettivo attore di cambiamento.

Il populismo è infatti, al di là della propaganda, conservazione sociale e tutela di interessi corporativi, ed è estraneo a promuovere la crescita come contesto indispensabile nel quale inserire la riforme sociali e la redistribuzione della ricchezza, per il suo tratto antindustriale, parassitario, declinista e ribellista proprio dei ceti sociali marginali che rappresenta. Ma grazie all’azione di quelle poche forze riformiste presenti nel governo questo “destino inevitabile” è stato sventato consentendo a Mattarella di realizzare un vero e proprio capolavoro: chiudere con il governo populista e dare vita a una grande coalizione guidata proprio da un riformista, la cui biografia pubblica è pienamente inserita in quel campo di forze evocato all’inizio. Invece il programma che Draghi ha esposto di fronte al Parlamento all’atto del suo insediamento rappresenta la traduzione nel nostro paese dell’asse programmatico che tiene insieme Ursula von der Leyen e Biden e che ne fa i punti di riferimento del riformismo possibile in Occidente.

Dietro quel programma c’è la tradizione del miglior riformismo italiano che ha guidato l’azione dei governi di centrosinistra in Italia da Amato a Gentiloni, passando per Ciampi, Prodi e Renzi. È bastato il suo ingresso nello spazio politico che tutto è cambiato: Conte è uscito dai radar, Zingaretti è stato costretto a dimettersi, Forza Italia ha abbandonato la sudditanza all’alleanza sovranista, persino Leu si è decomposta. Da un progetto di “resistenza” antipopulista, l’appello si è trasformato in un progetto di riscatto e di rilancio volti ad affermare che solo questo campo di forze può ambire a salvare il paese e fornirgli le coordinate per il suo rilancio: cioè può legittimamente proporsi come l’unica risorsa politica effettiva di cui dispone il paese come era già accaduto tutte le volte che il paese è stato chiamato a uno sforzo eccezionale per uscire da tragedie collettive come la seconda guerra mondiale o il terrorismo.

Ma oggi questo campo di forze in grado di raccogliere questa sfida non c’è. E anche la svolta che Letta intende intraprendere rischia di non riuscire se esso non si costruirà. L’Appello vuole dare un contributo alla sua costruzione che deve passare inevitabilmente da una assunzione di responsabilità delle forze dentro e fuori il Pd Azione, Italia Viva, +Europa, Base, Partito socialista, Verdi e altri movimenti – a tessere i fili di una riflessione comune e di una aspirazione federativa. Non si tratta certo di fare un nuovo partito, quanto piuttosto di dare vita a un campo federato di forze organizzate, ma anche di comuni cittadine e cittadini, che si proponga di portare il paese fuori dalla lunga stagione dell’egemonia populista e sovranista. Il 21 marzo la Maratona riformista che si svolgerà dalle 9,15 alle 13 con la partecipazione di esponenti di tutte le forze riformiste vuole essere il primo masso di questo cammino.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.