Solitamente si individuano le due missioni del governo Draghi, che è un governo tecnico-politico di (quasi) unità nazionale, nel compito affidatogli dal presidente della Repubblica, da una parte, di fronteggiare l’emergenza pandemica e, dall’altra, di impostare e avviare la politica di ripartenza economica legata all’utilizzo dei cospicui fondi ricevuti dall’Europa ma condizionati al loro corretto ed efficiente utilizzo (il che impone anche alcune riforme di struttura, dalla giustizia alla pubblica amministrazione fino al codice degli appalti e alla concorrenza).

Non esplicitato, sottinteso, e d’altronde non dipendente dall’azione di Draghi ma possibile e auspicato effetto indiretto di essa, c’è poi un altro obiettivo da raggiungere: la riconquista da parte della politica di una dignità e di una capacità di azione che possa ridare con la fiducia ai partiti un pieno potere allorquando il «sostanziale commissariamento del nostro governo da parte del Quirinale, d’intesa con l’asse franco-tedesco che egemonizza l’Unione Europea» sarà finito e si sarà perciò tornati alla necessaria «normalità democratica». Che la lontananza da questo obiettivo rappresenti oggi il vero vulnus del nostro sistema politico e statale, e insieme la ragione della sua crisi, è la convinzione di Ludovico Festa e Giulio Sapelli, un giornalista affermato e un autorevole studioso, autori di un brillante pamphlet, Draghi o il caos. La grande disgregazione: l’Italia ha una via d’uscita? (GoAre-Guerini e associati, pagine 186, euro 16,50).

Sia chiaro, la democrazia è messa alla prova ed è in crisi in tutto il mondo, ma a questa crisi se ne aggiunge in Italia una verticale dello Stato iniziata con la scomparsa o trasformazione nei primi anni Novanta dei partiti su cui si reggeva precedentemente il sistema. Una disgregazione avvenuta per l’attacco di una magistratura politicizzata che, facendo perdere l’architrave su cui si fondava un Paese già di per sé frammentato e diviso, ha portato con sé la disgregazione anche di altri e ampi settori di una società che sembra oggi reggersi, nonostante l’indubitabile declino, più sulla forza d’inerzia che non su una più o meno condivisa spinta interiore o coesione sociale. Siamo così passati, negli ultimi anni, attraverso esperienze in cui populismi sempre diversi e diversamente atteggiati si sono alternati con “commissariamenti” tecnici di più o meno effettiva efficacia.

Il tutto mentre a livello internazionale i processi di globalizzazione mostravano il loro lato oscuro fatto di diseguaglianze, incapacità di gestione democratica dei processi e predominio delle forze impersonali e speculative dei mercati finanziari (il cosiddetto neoliberismo, su cui si appuntano non pochi strali del “socialista” Sapelli). Con indubbia maestria, il libro non solo ci porta al cuore di questi problemi, ma ci offre sguardi illuminanti e impreviste sollecitazioni. E anche non poche provocazioni, come è nello stile di Sapelli. La parte però più interessante a me sembra quella propositiva, che di soppiatto si introduce nel dibattito politico sul Quirinale spiazzando con una proposta netta e precisa che ha il pregio di essere argomentata e del tutto esente dai tatticismi a cui ci hanno abituato i partiti politici. Alla luce della storia di lungo periodo da Festa e Sapelli tratteggiata, risulta evidente che era velleitario pensare che il terzo e non esplicitato obiettivo assegnato al governo Draghi potesse risolversi rapidamente. E in effetti lo spettacolo che i partiti politici stanno offrendo in questi giorni è significativo perché segnala la persistenza da parte loro in una sorta di coazione a ripetere tic e demagogismi del passato.

Eppure, hic Rhodus hic salta: qui sta il nodo da superare. Il modo migliore per farlo, o almeno per provarci, per gli autori di questo volumetto, è metterli alla prova dando loro una prospettiva lunga che lascia sedimentare i processi già messi in atto. Il tutto sotto il controllo di Draghi e anche con la garanzia che solo lui può dare ai mercati e alle cancellerie estere (in primo luogo quelle europee). In sostanza, l’unica soluzione, o anche se volete l’ultima speranza per l’Italia, prima che il caos e la disgregazione ci assalgano, è per gli autori quella di spostare Draghi al Quirinale e profittare della sua presenza sul Colle più alto per permettere ai partiti di provarsi e di rigenerarsi.

Fargli continuare il lavoro a Palazzo Chigi, è il sottinteso di questo discorso, significherebbe perpetrare una emergenza democratica che deresponsabilizza e non fa crescere i partiti. I quali però, aggiungo io, dovrebbero essere loro a chiedere uniti a Draghi di restare. Il che non mi sembra facile, a parte il fatto che dopo tutto Draghi, oltre a far riconquistare credibilità all’Italia, ha per ora solo indicato una direzione e non ha nemmeno avviato quel lavoro di risanamento che senza la sua fermezza, con un altro esecutivo, potrebbe semplicemente abortire. Senza contare che nemmeno l’emergenza pandemica può dirsi definitivamente archiviata.