Molti si chiedono se dall’Afghanistan ci sarà, nell’immediato futuro o più in là, un grande esodo di rifugiati oppure ciò non accadrà. È una domanda legittima ma alla quale è arduo o forse impossibile rispondere. Se da un lato molti segnali dicono che parte della società afgana non accetta quella che considera oggi come una intollerabile compressione dei propri diritti e farà di tutto per lasciare il paese appena possibile, dall’altro noi occidentali tendiamo troppo spesso a sottovalutare come l’Afghanistan rimanga nel suo complesso un paese molto tradizionale e poco o nulla capiamo se ci limitiamo, come facciamo di solito, a guardare le dinamiche sociali delle aree urbane e quindi di quella importante, ma piccola parte della società che ha respirato un parziale cambiamento culturale, sociale ed economico.

Se il gran numero di afghani che hanno lasciato il Paese negli ultimi vent’anni lo hanno fatto in prevalenza per sottrarsi a una situazione di conflitto armato interno e di violenza generalizzata, oggi chi fugge lo fa per sottrarsi a un rischio concreto di persecuzione per motivi etnici (il motivo prevalente, considerato che la divisione etnica è il principale fattore di lacerazione del paese) politici, religiosi e di appartenenza ad un determinato gruppo sociale e in ragione di ciò gli va, quindi, riconosciuto lo status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 che, pure appannata dagli anni, dimostra ancora tutta la sua importanza. Gli afghani in generale, compresi coloro che avevano già lasciato il paese in precedenza, sono quindi rifugiati e ciò vale sia che si tratti di pochi che di molti o di moltissimi; l’Europa, se vorrà rispettare almeno questa volta, le leggi che si è data, dovrà trattarli come tali, ovvero dovrà assicurare loro di poter oltrepassare i nostri confini e di chiedere ed ottenere asilo.

Il recente passato non fa ben sperare sulla capacità dell’Europa di agire con giustizia ed equità: tra il 2008 e il 2020 (dati Eurostat) sono state circa 600mila le domande di asilo presentate nell’Unione (compresa la Gran Bretagna) e nonostante fosse evidente il diritto alla protezione, almeno sussidiaria, di coloro che l’avevano richiesta, circa la metà delle domande sono state rigettate torcendo alla peggiore volontà politica nozioni giuridiche già in sé assai controverse, come quella di area sicura interna nel paese di origine. Sulla base di tali folle scelte circa 70mila afghani nel decennio indicato sono stati forzatamente rimpatriati e tra essi 15mila donne. Va tuttavia detto in modo chiaro, perché è giusto dirlo, che ciò non è stato fatto dall’Italia, pressoché unico paese dell’Unione a riconoscere quasi sempre ai cittadini afghani una forma di protezione internazionale con un tasso di accoglimento delle loro domande di asilo del 97% nell’ultimo decennio.

Non solo il passato, ma anche quanto sta avvenendo non fa ben sperare perché la realtà non è solo quella, umanitaria, rappresentata dai programmi di evacuazione da Kabul terminati a fine di agosto ma è, nello stesso momento, anche quella dei mai cessati respingimenti di rifugiati afghani alle frontiere dell’Unione, tra la Turchia e la Grecia e persino, dentro l’Europa, dalla Slovenia e dalla Croazia verso la Bosnia. Come in un sistema impazzito, senza logica e senza etica, con una mano ci chiniamo caritatevoli a salvare i nostri collaboratori e qualcun altro ma con due mani respingiamo brutalmente chi ha invece osato presentarsi alla nostra porta.

Nonostante tutto, un timido dibattito si è aperto nelle ultime due settimane nell’Unione su come assicurare protezione ai rifugiati afghani e su come realizzare programmi di reinsediamento dei rifugiati già fuggiti in paesi terzi e attuare programmi di aiuto all’uscita dallo stesso Afghanistan. Se ci fosse la volontà politica e la consapevolezza che non possiamo ancora una volta scaricare le nostre responsabilità pagando paesi terzi (Pakistan, Iran, Tagikistan, Turchia e persino Bosnia) affinché si tengano tutti i rifugiati afghani, scopriremmo che gli strumenti giuridici per potere agire in modo diverso ed efficace sono già disponibili perché la Direttiva 2001/55/CE, una vecchia direttiva risalente ancora alla crisi della ex Jugoslavia, mai attuata ma vigente, prevede la possibilità di istituire un sistema europeo di solidarietà finalizzato a garantire un equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che subiscono le conseguenze dell’accoglienza in caso di un afflusso massiccio; un afflusso che può avvenire per arrivo diretto dei rifugiati ma – ed è questa la caratteristica della Direttiva più rilevante per la discussione attuale – anche nel caso esso «sia agevolato ad esempio mediante un programma di evacuazione» (art.3) mentre «gli Stati indicano la loro capacità di accoglienza in termini numerici e generali» (art.25) definendo cosi un meccanismo di redistribuzione che prescinde da quale sia il primo paese europeo di ingresso dei rifugiati.

In caso di adozione della Direttiva tutti i profughi afghani godrebbero in tutti i paesi europei di una misura di “protezione temporanea” ovvero di uno status giuridico uniforme e di connessi standard di accoglienza ed inserimento sociale. Lo status di protezione temporanea viene riconosciuto con procedure estremamente semplificate e veloci e non preclude in alcun modo il diritto di ognuno di chiedere il riconoscimento individuale dello status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra; non si tratterebbe quindi di una misura che riduce o limita il diritto d’asilo ma che garantisce con immediatezza una prima protezione ed accoglienza superando le enormi diversità che finora vi sono state, e che ho sopra accennato, nell’esame delle domande di asilo dei cittadini afghani. In ragione della natura straordinaria degli eventi le procedure di ricongiungimento famigliare dovrebbero potere avvenire in modo semplificato, tenendo conto anche delle inevitabili carenze documentali con estensione ai parenti stretti che vivevano con il nucleo famigliare ed erano dipendenti da esso.

Tra gli obblighi per gli Stati infine quello di «fornire alle persone ammesse ad entrare nel loro territorio ai fini della protezione temporanea qualsiasi agevolazione utile per ottenere i visti prescritti compresi i visti di transito. Le formalità devono essere ridotte al minimo in considerazione della situazione d’urgenza» (art.8). Ultimo, ma non meno rilevante aspetto, la Direttiva può essere adottata a maggioranza qualificata e non all’unanimità, superando in tal modo l’ostruzionismo di alcuni Stati che hanno già fatto sapere che non intendono spostarsi dalla logica del muro. In parallelo all’adozione della Direttiva citata, un’altra strada dalle ricadute potenzialmente molto efficaci per realizzare in modo ordinato programmi di ingresso protetto a legislazione vigente è quella di definire criteri unici tra i diversi paesi UE, con priorità nei confronti delle persone vulnerabili e comunque a rischio, per il rilascio, presso le rappresentanze diplomatiche di qualsiasi stato UE in paesi terzi, di visti umanitari in base all’art. 25 del Codice comunitario dei Visti (Regolamento CE 810/2009). L’utilizzo di tale procedura non va sottovalutato pensando che essa possa riguardare solo un numero molto limitato di situazioni perché, al contrario, proprio per le sue caratteristiche essa è potenzialmente applicabile in modo capillare su larga scala in molti paesi, comprese le aree dove la presenza di sfollati è/sarà minore rispetto alle rotte principali e dove non saranno realizzabili programmi di reinsediamento.

Nessuna delle misure e dei programmi che ho sopra descritto con inevitabile schematicità rappresenta “la” soluzione, per la semplice ragione che nel sistema della protezione internazionale la soluzione unica non esiste ma esistono diverse possibilità e procedure già normativamente possibili che permettono di dare delle risposte parziali. L’opposto di questa strada è la chiusura di chi sostiene che non si può fare nulla se non proteggere l’Europa dai rifugiati invece di proteggere i rifugiati, abbracciando un’ideologia che è la negazione più profonda e violenta della nostra storia e della nostra, pur smarrita, identità di europei. Il dramma dei rifugiati afgani sarà con tutta probabilità il principale banco di prova della tenuta (o della stessa esistenza) della citata Convenzione di Ginevra a 70 anni dalla sua emanazione, a partire dalla protezione da garantire a coloro che sono già fuggiti, ma che rimangono senza una effettiva protezione come gli afgani intrappolati in Turchia o già persino arrivati in Europa ma non nell’Unione, come quelli stritolati nei Balcani. Attuare subito un programma di reinsediamento dei rifugiati afghani dalla Bosnia dovrebbe essere considerata come una priorità e ogni ritardo essere vissuto come intollerabile.

Vorrà il Governo italiano, come richiesto dalle associazioni ed enti del Tavolo Asilo, chiedere formalmente all’Unione Europea di applicare la Direttiva 2001/55/CE e di realizzare un programma di reinsediamento dei rifugiati afgani dai Balcani e dai paesi terzi? La strada è politicamente difficile perché la maggioranza qualificata per l’adozione della Direttiva potrebbe non essere raggiunta ma una cosa è provarci e non riuscire, ben altro è non provarci affatto e balbettare qualche frase di circostanza sull’impegno a proteggere i rifugiati. La crisi dell’Afghanistan rappresenta a tutti gli effetti un test per l’Europa, per contarsi tra di noi, tra chi sta dalla parte della reale tutela dei diritti umani e chi è, nei fatti, contro tali diritti anche se ha formalmente dichiarato di proteggerli.