Con i partiti della vecchia maggioranza che guardano ancora nello specchietto retrovisore rinfacciandosi ogni sorta di nefandezza, la politica tutta è chiamata a scelte cruciali. Considerando l’altissimo profilo della figura, l’incarico a Mario Draghi è innanzitutto un evento carico del sapore simbolico dell’“ultima chiamata”. È come se si materializzasse quello che sinora era stato ventilato come una specie di evento tra il palingenetico e il disperato. Sono anni che il nome dell’ex Presidente della Bce viene evocato, a ogni crisi, come extrema ratio per salvare il paese.

Sul piano istituzionale l’iniziativa presidenziale è la certificazione del collasso di un sistema di governo incapace di assicurare stabilità ed efficienza. L’ultima propaggine di un male antico che la classe politica non è mai riuscita (o non ha voluto) affrontare e risolvere. Tra le grandi democrazie nessuna vive una situazione anche lontanamente paragonabile alla nostra. Ovunque governano maggioranze o presidenti scelti direttamente dai cittadini o, tutt’al più, e raramente, grandi coalizioni necessitate, ma certamente non auspicate, dalle forze politiche. L’Italia è l’unico paese che vive la zoppia di governi deboli, continuamente cambiati, anche tre o quattro volte nella legislatura, secondo un modello di parlamentarismo arcaico e inconcludente che tutti sanno essere il nostro vero tallone d’Achille. Solo in questa legislatura abbiamo avuto, finora, due governi con maggioranze radicalmente diverse e tutte tra partiti fieramente avversari alle elezioni.

La patologia dunque non è l’intervento deciso del Capo dello Stato, costretto ancora una volta a quel ruolo di supplenza che ormai tanti dei suoi predecessori hanno dovuto esercitare. La patologia sta nel fatto che questa supplenza sia ormai quasi permanente, perché nulla è stato fatto per evitare che ciò dovesse ripetersi. E ancora ieri (e forse oggi) i partiti discettavano di legge proporzionale, la quale avrebbe solo l’effetto di rafforzare ancora di più l’instabilità, i poteri di veto e il trasformismo parlamentare. Tutto il contrario di quanto si dovrebbe fare, cominciando da quella riforma della Costituzione che inseguiamo da mezzo secolo. Cosa deve ancora accadere perché la politica abbia un sussulto di responsabilità e metta in agenda qualche riforma costituzionale seria che metta in sicurezza il paese?

In questo contesto e con questo Parlamento, ormai chiaramente non più rappresentativo degli orientamenti dell’elettorato, la scelta di Draghi apre una speranza ma conferma, allo stesso tempo, un dramma. Di fronte a questo tentativo, gli scenari sono fondamentalmente tre. I primi due sono facilmente intuibili. Il tentativo riesce e si va avanti ad oltranza con un esecutivo che rappresenta il meglio di quanto un governo istituzionale possa offrire. Sarebbe, peraltro, il primo governo di questo genere a non nascere all’insegna dell’austerity e delle “lacrime e sangue”. Perché, con il Recovery Plan, la prospettiva è quella di politiche espansive, anche attraverso il ricorso a quello che lo stesso Draghi ha definito “debito buono”. E di cui sarebbe garante.

Il secondo scenario è quello che invece il tentativo fallisca e si vada ad elezioni. Se fossero subito è veramente difficile prevedere quanto peserebbe nelle scelte degli elettori il fallimento del tentativo di Draghi. È probabile, infatti, che non mancherebbe chi voglia sfruttare in campagna elettorale recriminando per l’occasione persa e additando i responsabili come sabotatori della speranza. Per questo motivo la scelta sul sostegno al tentativo di Draghi è assai più problematica per chi, a cominciare dal centro-destra, è tentato dalla strada delle elezioni e dalla possibilità concreta di incassare il successo promesso da tutti i sondaggi. Successo che potrebbe, invece, affievolirsi man mano che la prospettiva delle urne si allontana.

Proprio dall’intreccio di tutti questi fattori potrebbe farsi strada una terza via, nella quale si preveda la combinazione tra il varo del governo e la definizione del ricorso alle urne in tempi non troppo dilatati. Magari subito dopo l’estate, così come, peraltro accadrà in Germania (dove le elezioni generali si terranno il 26 settembre). Una soluzione di compromesso che potrebbe, da un lato, mettere al centro del gioco il centro-destra, evitandone la spaccatura e legittimandone il ruolo nella fase delle decisioni sull’agenda economica dei prossimi anni, e dall’altro, evitare a Draghi di restare legato ad una maggioranza oggettivamente più fragile e soprattutto lontana da quella trasversalità cui alludeva il Presidente della Repubblica allorché ha parlato di un governo “di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Dopodiché si aprirebbe la partita della Presidenza della Repubblica, per la quale i candidati autorevoli certamente non mancherebbero.