È il governo dei Presidenti. Che hanno usato abilmente il bilancino della politica. Mario Draghi entra al Quirinale alle sette di sera dopo un lockdown di dichiarazioni e indiscrezioni lungo 48 lunghissime ore, da mercoledì sera quando alle 19 aveva concluso le consultazioni alla Camera fino a ieri sera alle 19 e 42 quando è comparso nel salone delle Feste per leggere la lista dei ministri del suo governo. Fino a quel momento si sono inseguite ipotesi di ogni genere, compreso il fatto che avrebbe potuto rinviare addirittura fino a lunedì.

Mario Draghi, già soprannominato La Sfinge, ha invece semplicemente atteso che Giuseppe Conte concludesse il suo ultimo consiglio dei ministri, delicato perché all’ordine del giorno c’era la decisione sul Dpcm anti Covid che dal 15 mattina avrebbe riaperto tutta Italia. La decisione toccava, giustamente, al governo uscente che ha optato per un rinvio delle misure fino al 25 febbraio. Il nuovo esecutivo avrà dieci giorni per orientarsi. È stato un atto di cortesia istituzionale a far slittare la pubblicazione di una lista che era pronta da ieri sera. E che i segretari dei partiti hanno però conosciuto solo ieri pomeriggio. Draghi è entrato al Quirinale alle 19 in punto e a mani vuote: né una cartellina, né una 24 ore, né un trolley o uno zainetto.

Il bilancino ha onorato l’impegno di dare vita ad un governo misto tecnico-politico e di unità nazionale con le competenze necessarie per tirare fuori l’Italia dalla crisi in un arco di tempo che va da uno a due anni e mezzo. Sono 23 i ministri di cui otto senza portafoglio, otto tecnici e 15 politici, 15 uomini e 8 donne, sempre decisamente troppo poche. Il Pd, ad esempio, è l’unico partito che non ha indicata neppure una. È un governo sostenuto da sei partiti e con due componenti tecniche di peso, del Quirinale e del Presidente Draghi. Il Presidente Mattarella blinda il Viminale e il ministero della Giustizia confermando Luciana Lamorgese e indicando alla Giustizia l’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia. Così come il Viminale, dopo Salvini, aveva bisogno di tornare ad una terzietà istituzionale, così oggi il ministero della Giustizia ha bisogno di essere gestito da mani non politiche in grado di superare il gap di una giustizia che non funziona. E di curare il male di una magistratura segnata dalle inchieste. In “quota Quirinale” è letta anche la conferma di Lorenzo Guerini al ministero della Difesa.

La conferma di Guerini intreccia i tormenti del Pd che è a rischio scissione dopo mesi di tensioni tra le correnti per una crisi di governo poi innescata da Matteo Renzi ma da molti altri cercata e voluta. Guerini è il leader di Base riformista, una importante corrente del Pd, gli ex renziani che non hanno condannato la scissione di Italia viva e che male hanno sopportato l’abbraccio “strutturale” con i 5 Stelle decantato dal segretario Zingaretti e cementato dal consigliere Bettini. Insomma, il rischio forte era che nella costruzione del governo Draghi ci fossero, nel Pd, più pretendenti – tre – che posti (due). Invece è entrato il vicesegretario Andrea Orlando, in quota segreteria, che sarà ministro del Lavoro, un dicastero chiave nei prossimi mesi. Ed è stato confermato ai Beni Culturali anche Dario Franceschini che però perderà la delega al Turismo, uno dei settori chiave per il Pil italiano (13%) ma che più di tutti sta soffrendo la crisi e che ancora non riesce ad avere prospettive serie di ripartenza e di aiuti.

La componente Draghi è l’altra componente tecnica di peso. Come previsto, l’ex presidente della Bce ha tenuto per sé i ministeri pesanti, economici e strategici. Una specie di think tank dei migliori all’interno del governo. Daniele Franco, il direttore generale di Bankitalia va in viale XX Settembre al dicastero dell’Economia. Roberto Cingolani, responsabile dell’Innovazione tecnologica di Leonardo spa, diventa il primo ministro del superministero della Transizione ecologica e sarà anche il referente per il Recovery plan. Cristina Messa, rettore del Politecnico della Bicocca a Milano, è il nuovo ministro dell’Università e della Ricerca. Patrizio Bianchi prende il posto di Azzolina all’Istruzione. Vittorio Colao, ex numero 1 di Vodafone e il regista del famoso Piano rimasto nel cassetto di Conte, prende l’Innovazione tecnologica e avrà l’onere e l’onore, se ci riesce, di guidare l’Italia nella strada difficile ma affascinante della Transizione digitale. L’uomo giusto al posto giusto, verrebbe da dire.

Esaurita la parte tecnica, bisogna dire che i partiti hanno avuto tutto quello che potevano chiedere. Tranne forse Italia viva: resta fuori Teresa Bellanova, il volto della crisi di governo, e torna al “suo” posto, al ministero della Famiglia, Elena Bonetti, la meno politica della squadra renziana. Matteo Renzi però ha subito applaudito al dream team di Draghi: «Una squadra di alto livello, buon lavoro al Presidente Draghi». Italia viva è un partito piccolo. Tanto quanto Leu che però ha tirato un sospiro di sollievo quando è arrivata la telefonata che ha confermato Roberto Speranza alla Salute, un ministero di grande peso politico e strategico. Nulla a che vedere con la Famiglia che è senza portafoglio. Il Movimento 5 Stelle è il partito più rappresentato, quattro ministri: Di Maio resta alla Farnesina; D’Incà ai Rapporti col Parlamento; Patuanelli passa all’Agricoltura e Dadone ai Giovani e allo Sport. Una squadra molto legata a Di Maio, possiamo dire del tutto debatistizzata e decontizzata.

Il centrodestra torna al governo in pompa magna. La disponibilità all’appello del Capo dello Stato è stata premiata. Con buona pace dei mal di pancia dei grillini e del Nazareno. Forza Italia ottiene tre ministri: Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione; Mariastella Gelmini agli Affari regionali ed Autonomie; Mara Carfagna avrà il pesante ministero del Sud. Si tratta di ex ministri già presenti nei precedenti governi Berlusconi. Anche qui, se cerchiamo, sono state rispettate le diverse anime di Forza Italia: il socialismo riformatore di Brunetta; il nord della Gelmini; il sud della Carfagna. Bilancino al cubo. Più facile deve essere stato con la Lega. Salvini torna al governo con tre ministri: Giorgetti allo Sviluppo economico; Garavaglia al Turismo che dovrà avere un taglio più economico vista la crisi; Erika Stefani alla Disabilità. Sono tre temi che la Lega ha portato al tavolo delle consultazioni. «Mi aspettavo più discontinuità su Interni e salute, avranno bisogno di aiuto» ha commentato Salvini. Che ha promesso: «Va bene così, l’Italia chiama e dobbiamo tutti dare una mano».

È il governo dei Presidenti. Del premier incaricato e del Presidente della Repubblica. Un indizio vale più, in questo caso, di una prova. Giovedì Draghi è stato al centro di un “gioco” giornalistico “Where is Mario?”. Tutti lo cercavano e nessuno sapeva bene dove fosse. Prima è stato dato per certo «al lavoro nella sua residenza umbra a Città della Pieve» dove ha fatto ritorno quasi tutte le sere da quando è stato incaricato. Poi è stato intravisto in una foresteria dell’Arma dei Carabinieri che per uno scherzo del destino si chiama “Casale di Renzi”. In realtà il premier incaricato ha passato l’intera giornata lavorativa al Quirinale, in uno studio allestito per lui dalla Presidenza della Repubblica, per poter lavorare vicino al Capo dello Stato, l’unica persona che da mercoledì sera, quando sono terminate le consultazioni, ha potuto interagire con lui. Insieme hanno quindi potuto commentare il risultato della consultazione dei 5 Stelle su Rousseau. Non che cambiasse molto la loro agenda. Ma era un passaggio obbligato nella difficile costruzione del governo.

L’unica e ultima volta che Draghi ha parlato è stato la mattina del 3 febbraio, poco dopo le 13, dopo aver accettato con riserva l’incarico. Un breve discorso che era già il programma del suo governo: vaccinare gli italiani che è “la prima misura economica” da prendere; dare tutele sul lavoro perché la ripresa ci sarà ma sarà lenta; impiegare al meglio tutte le risorse, 209 miliardi, messe a disposizione del Recovery plan. Da quel momento sulla mission di Draghi è calato un inedito e rumorosissimo silenzio. In questi dieci giorni giornali e tv hanno dovuto in fretta ricalibrare metodi di lavoro. E soprattutto le fonti. Sono rimaste silenti le chat che per due anni e mezzo hanno scandito, spesso guidato, altre volte condizionato il lavoro dell’informazione. Scomparsi gli spin che specie “con la complicità delle tenebre” hanno condizionato in questi anni titoli di apertura e retroscena. Improvvisamente e solo cronisti, i giornalisti sono tornati a fare il loro originario lavoro.

Lo stile Draghi, tedesco negli orari (alle 19 si smette di lavorare e quindi posiamo forse dire addio al Cdm nel cuore della notte e di sicuro alle conferenze stampa all’ora di cena in streaming e sui canali digitali) e avaro nelle dichiarazioni per non dire muto (è già stato ribattezzato La Sfinge), ha condizionato pesantemente anche la creazione della squadra di governo. Ieri nessuno dei player tradizionali di una crisi di governo – segreterie dei partiti, staff del Quirinale, diretti interessati – hanno potuto o voluto dire mezza parola.

«È stato gestito tutto in via esclusiva dal Capo dello Stato e dal premier incaricato» è stata la frase più ripetuta. E quei pochi che sono stati contattati hanno avuto la consegna di un rigoroso silenzio. Persino le ultime rose di ministri circolate – alle 17 e alle 18, addirittura complete di sottosegretari – erano farlocche. Sebbene messe in giro da ambienti politici. Oggi il giuramento, poi il primo consiglio dei ministri. I più emozionati saranno i tecnici. La partita dei sottosegretari chiarirà meglio il programma di Draghi. Che il premier spiegherà martedì al Senato e mercoledì alla Camera. Poi tutti a lavorare. Il tempo è poco. Le cose da fare molte.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.