All’ottavo mese di guerra vi sembrerà una dichiarazione persino frivola, ma pensavo ieri: Ah, se Putin avesse letto di più Turgenev e un po’ meno Dostoevskij…Non dico, per parafrasare Woody Allen su Wagner (“Quando ascolto la “Cavalcata delle Walchirie” mi viene voglia di invadere la Polonia”) che la lettura dei Fratelli Karamazov spinga a invadere l’Ucraina, però quando l’ineffabile Aleksandr Dugin,’ideologo dell’euriasatismo e ispiratore di Putin (accanto al patriarca Kirill), prende a lodare Dostoevskij , “il più grande genio nazionale russo”, come un profeta che sognava la missione salvifica del suo popolo, viene qualche brivido.

Sappiamo bene come gli straordinari romanzi polifonici dostoevskijani non contengano alcuna verità edificante né univoca, tuttavia lo scrittore è stato il precursore dello spirito panslavista, ortodosso e anti-occidentale. E almeno in un’occasione il suo panslavismo si colora di tinte bellicistiche: “Meglio sguainare la spada che soffrire all’infinito”. Nella letteratura russa, a partire dai primi del ‘700 e dalle riforme del modernizzatore Pietro il Grande, zar illuminato, si sono creati due schieramenti contrapposti: slavofili o panslavisti ( dal populismo al nazionalismo imperialista) contro occidentalisti (ovviamente con travasi continui e intrecci tra i due campi). Puskin era di animo illuminista ma condannò le aspirazioni indipendentistiche dei polacchi e difese l’idea della Grande Russia (si veda la poesia “Ai calunniatori della Russia”, dove si auspica che tutti gli slavi confluiscano nella Russia).

Gogol parte filo-occidentale e finisce un tantino slavofilo. La dicotomia arriva alla Rivoluzione d’Ottobre: menscevichi europeizzanti e bolscevichi “russificati” in fondo aspirano entrambi all’elettrificazione e si rifanno a Marx (pensatore inequivocabilmente occidentale), anche se nella neonata Unione Sovietica sembra rinascere l’antica velleità imperiale. Majakovskij loda le macchine e l’industria, Esenin la vita nei campi e la cultura contadina. Stalin slavofilo orgoglioso delle sue origini rurali, Trotzskj ebreo e con vocazione cosmopolita. Torniamo al bistrattato Turgenev, narratore immenso, che proprio Woody Allen volle citare in una intervista come uno dei suoi modelli ideali. Molti suoi film hanno in effetti una struttura narrativa che ricorda lo scrittore russo: delle persone accanto a un tavolo, in un’occasione conviviale, che si mettono a raccontare qualcosa e si ascoltano a vicenda (ad esempio il romanzo breve Primo amore). Turgenev, benché ammirato da molti scrittori venuti dopo (Maupassant e Henry James) fu quasi subito oscurato dalla forza vulcanica di Dostoevskij e Tolstoj, e spesso calunniato in quanto cosmopolita e “traditore” della Russia.

Visse quasi sempre all’estero, per lunghi periodi a Baden Baden e in particolare era di casa a Parigi nel salotto dei fratelli Goncourt, amico personale di Flaubert, Mérimée e Zola. A Oxford poi venne insignito della laurea ad honorem in legge. Eppure i suoi romanzi e racconti uniscono un gusto sublime della affabulazione a una rappresentazione sobria, disincantata dell’esistenza. Un saggista messicano, Christopher Dominguez gli ha dedicato un articolo in cui, tra l’altro, nota che il (relativo) fallimento letterario di Turgenev è dovuto soprattutto a una ragione: il suo liberalismo, sincero ma un tantino blando, oggi potremmo dire “moscio”, non poteva che essere sconfitto dal potente anarchismo cristianeggiante del conte Tolstoj e dalla vertigine nichilista di Dostoevskij. Questi due giganti cercavano l’abisso e la redenzione, immersi nel sottosuolo più abietto o nei tormenti della fede, mentre Turgenev era poco attratto sia da Dio che dagli estremi. Prendiamo la sua opera più famosa, Padri e figli, del 1862 (in cui inventa la parola “nichilista”).

Secondo Dominguez da questo romanzo apprendiamo una “lezione di serenità”. In che senso? Il protagonista Bazarov, giovane medico innovatore, di idee materialiste e nichiliste, a un certo punto si ammala di tifo – per essersi ferito con il bisturi con cui seziona il corpo di un contadino morto di quella malattia – e poco dopo muore. Deve rinunciare ai suoi grandi progetti, ai suoi ideali palingenetici, e alla pratica di cura dei contadini, per un banale incidente biologico (una setticemia), Nei romanzi di Dostoevskij e Tolstoj di solito si muore in modo violento, spettacolare: assassinio, suicidio, parricidio (la loro epica dell’esistenza è stata paragonata a quella di Omero, mentre George Steiner li ha accostati alla tragedia greca!). Qui invece l’eroe positivo ha una morte prematura e in fondo banale.

Quanto ci è più vicino Turgenev, così indifeso e antieroico, con la sua visione equanime e priva di qualsiasi idolatria (pur combattendo la servitù della gleba e denunciando la nobiltà non idealizza mai i contadini), con tutti i suoi dubbi e le sue irrisolte contraddizioni, rispetto ai due dioscuri del romanzo russo ottocentesco! Insomma, qualcuno impresti i libri di Turgenev allo zar Putin! Certo, non possiamo avere alcuna certezza sull’esito. Ricordo che vari anni fa Bush jr, presidente, passò l’estate a leggersi Lo straniero di Camus, che pare apprezzò molto. In una intervista non sapeva spiegare le ragioni dell’apprezzamento e si perse in ragionamenti confusi, anche perché, onestamente, si tratta di un romanzo bello e inafferrabile.

Un giornalista malizioso ipotizzò che gli era piaciuto perché il protagonista, com’ è noto, ammazza un arabo! D’altra parte il presidente di una grande potenza non è tenuto ad avere, che so, la finezza ed erudizione letteraria di Harold Bloom. Ma insomma credo che una lettura anche frettolosa di Padri e figli possa suggerire a Putin che l’esistenza è esposta al caso e a una tragica ambivalenza e che perciò sono sconsigliate iniziative ultimative, troppo tranchant, che si illudono di piegare la realtà a proprio piacimento (ma del resto questa stessa cosa potrebbe apprenderla da Dostoevskij, a leggerlo bene e senza la mediazione di Dugin).