La retorica dei guerrafondai
I civili bloccati a Mariupol hanno diritto alla resa, invece attendono solo la morte
Non si sa nulla di preciso. Quanti civili, quante donne e quanti bambini si trovino nei sotterranei dell’acciaieria di Mariupol assediata dai russi è un incomprensibile mistero. Nella guerra, tutta mediatica, che rilancia trionfalisticamente i numeri dei soldati uccisi, dei mezzi distrutti, delle città spianate, nessuno che abbia voglia di far sapere al mondo quanti innocenti si trovino in mezzo agli scontri, in balia delle milizie e dei soldati che si stanno fronteggiando in un bagno di sangue. Eppure, eppure ci vorrebbe ben poco; basterebbe chiederlo a quanti comandano le truppe ucraine asserragliate o al presidente Zelensky che pur tutti i giorni tiene aggiornato il mondo sull’andamento del conflitto e sulla barbarie degli invasori. La domanda è scomoda.
È evidente che quelle persone, quelle donne e quei bambini, avrebbero tutto il diritto di arrendersi; avrebbero il pieno diritto di consegnare le proprie vite a un futuro; avrebbero tutto il diritto di sottrarsi alla fame, alla paura, all’odio, al pericolo della morte. Nessuno li interpella, e forse a nessuno interessa veramente la loro sorte. Sotto sotto il partito del moschetto che si è impossessato dei maitre a penser europei li considera un danno collaterale che non si può evitare e che, tutto sommato, si deve anche sopportare per rendere più brutale e insopportabile il volto sanguinario di Putin e del suo esercito. Un cinismo freddo e calcolatore sembra tracimare da alcune Cancellerie atlantiche e riversarsi sui media e sulle pubbliche opinioni europee. Come è inevitabile accada dopo due mesi di guerra, quando ai massacri ci si abitua e le morti si contano a decine. Un cinismo ciclico nelle guerre di tutti i tempi.
Lo ricordava bene su Libero di ieri un editoriale che riprendeva passi di una lettera di Togliatti a Vincenzo Bianco, suo braccio destro per i rapporti con l’Urss che gli chiedeva, nel luglio del 1943, di intercedere con Stalin per salvare la vita a migliaia di alpini italiani che stavano morendo di stenti nei campi di prigionia sovietici. Togliatti ricordava che “se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché… Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini … si concluda con una tragedia. con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti … tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia”. Nei calcoli di una certa politica non c’è tempo per riflettere sulle vite in bilico. Si devono documentare le stragi, si devono censire le fosse comuni, non perché via sia la speranza di un giusto processo per i criminali di guerra innanzi ai tribunali internazionali, ma solo perché si deve rafforzare il fronte oltranzista. Non si parla di pace, di trattative da settimane ormai; sono scomparse persino le immagini delle delegazioni intorno a un tavolo. La guerra è l’unica opzione di cui si declinano i tempi, le modalità, le prospettive, la contabilità.
La scelta chiara è imbottire di armi gli ucraini per, poi, celebrarne l’imperituro coraggio, come ha detto ieri il premier inglese in India. L’idea condivisa è diventata quella di impantanare Putin in una guerra di logoramento, come in Afghanistan, per spezzarne la leadership e distruggere quei brandelli di credibilità rimastagli come capo di una superpotenza. Per farlo il costo da pagare è il martirio di un popolo; la lunga agonia di una nazione fatta a pezzi, con sette milioni di sfollati di cui quattro milioni di profughi fuggiti all’estero, con città rase al suolo, con la prospettiva di trasformare l’Ucraina in un lungo Vietnam fatto di scontri a media e alta intensità lungo un’incerta linea di confine. E’ innegabile che Putin si sia preso molto di più di quanto, almeno a parole, pretendeva prima della guerra; ha sbagliato parecchie mosse, ma in un tavolo di trattative difficilmente avrebbe pensato di potersi impossessare di un pezzo così vasto dell’Ucraina come quello che ha occupato sino a oggi.
Occidente, Ucraina e Russia hanno sbagliato tutti i conti. Otto Von Bismarck soleva dire che «nessun piano sopravvive al contatto con il nemico» e questo è successo sia nei campi di battaglia che nelle strategie delle cancellerie. In mezzo la povera gente che, come nello splendido manifesto della Marcia per la pace di Assisi di oggi, vede le pallottole arrivare da tutte le parti senza possibilità di scampo. Non si è capito secondo quale calcolo gli occidentali possano far credere che le tonnellate di armi fornite agli ucraini non siano anche la causa di morti tra i civili; come possano dire che bombe, razzi, proiettili selezionino accuratamente i propri bersagli lasciando indenne la gente che nelle città e per le strade vive. La propaganda bellica che si è impadronita di molti media celebra le immagini della precisione chirurgica dei missili, esalta la millimetrica accuratezza delle esplosioni, ma la guerra non è tutta lì, anzi quasi per nulla la battaglia è asettica distruzione del nemico.
Si sta combattendo tra le strade, si uccide casa per casa. Nei sotterranei dell’acciaieria Azovstal persone innocenti attendono la morte per mano dei carnefici privi di scrupoli che li stanno assediando. Ma nessuno oggi ne reclama la vita, chiede conto della loro mancata resa, esige che siano lasciati andare. La solita retorica li vuole parenti di soldati che combattono o che sono stati uccisi; così li conteggia facilmente tra quelli che hanno deciso eroicamente di morire e computerà i loro cadaveri tra i crimini di guerra russi. Avrebbero il diritto alla resa, ma le loro morti sono più preziose delle loro vite, forse.
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