Nel marasma delle notizie sul Covid-19, che occupano in modo massiccio e opprimente ogni possibile spazio di attenzione, si rischia di perdere di vista il fatto che c’è anche dell’altro. Non meno importante, anche se emotivamente marginale rispetto al sentire comune. Però sarebbe delittuoso non parlarne, perché forse sono proprio quelle piccole cose a fare la differenza nella vita delle persone, e dunque in quella di tutti noi. Soprattutto perché incidono sull’idea di civiltà di cui vogliamo essere parte. Una di queste notizie è quella che riguarda Claudia.

Claudia ha 40 anni, è detenuta a Pozzuoli con sentenza definitiva. Ha due figli, di 6 e 7 anni, entrambi malati di una gravissima forma di emofilia, che vivono a Maddaloni. Hanno bisogno di cure e di trasfusioni. Claudia ha ottenuto, mesi fa e per un periodo fino a tutto aprile, un permesso di necessità, che la autorizza a lasciare il carcere tre volte alla settimana alle 14, andare da sola a Maddaloni, curare i figli e rientrare per le 21 in cella. La direttrice del penitenziario, Carlotta Giaquinto, vista l’emergenza coronavirus, ha chiesto al Giudice di Sorveglianza di Napoli la possibilità di consentire a Claudia di finire di scontare la pena ai domiciliari, per ridurre i rischi di contagio.

Il Giudice di Sorveglianza ha dato parere favorevole. Tutto bene, direte. No. Perché il Pm ha bloccato tutto, opponendo motivi tecnici e procedurali, primo fra tutti l’impossibilità – lo diciamo in soldoni – di trasformare un permesso in sentenza. L’intera storia e i suoi dettagli potete leggerli a pagina 15. Qui invece vogliamo porre alcune domande, dirette, senza retorica. I divieti di spostamento per l’emergenza, diventano meno vincolanti se c’è un oggettivo rischio di essere contagiati e di contagiare bambini, familiari, o comunità compresse come quelle carcerarie?

È possibile che il “vincolo tecnico” su cui si arrocca un pm, sia più forte del senso pratico, del dubbio, della ragionevolezza e soprattutto dello spirito equilibrato che dovrebbe ispirare il senso di ogni nostra azione e, a maggior ragione, quelle in testa a un magistrato che – come ha ricordato la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia – mai dovrebbe dimenticare che “la Giustizia deve avere un volto umano”?

Il magistrato in questione sarà un eccellente tecnico, ma di sicuro non ha letto i Miserabili, o se li ha letti si è immedesimato nel fosco Javèrt: inflessibile, implacabile, ostinato e cieco fino alla fine nel perseguire il pentito Jean Valjean, per lui mai sufficientemente redento. Ma forse siamo andati troppo lontani e troppo in alto. Probabilmente il nostro pm-tecnico, sommerso nei codicilli, non ha mai nemmeno sentito di quel proverbio indiano: “prima di giudicare un uomo, cammina due giorni nelle sue scarpe”.

Chissà, se per due giorni il Pm-tecnico si mettesse nei panni di Claudia, e nelle sue scarpe, e nelle sue angosce, capirebbe qualcosa di più della vita. E quindi, forse, del Diritto. Il dibattito sul dramma carceri, e sulla capacità di certa magistratura di comprendere meglio e fino in fondo la responsabilità enorme che proprio quel magistero comporta, è aperto da tempo. La storia di Claudia e del pm-tecnico è la prova che non si deve rinunciare all’idea di una giustizia più rispettosa di ogni singolo essere umano. Anche perché – come in questo caso – rispettarne uno, significa ancor di più rispettarne, e proteggerne, a centinaia. E ricordi, signor pm-tecnico, le scarpe di Claudia sono strette. Molto strette. È per questo che non le prova?

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