Le diversità all’interno dell’Europa per ciò che riguarda la presenza di richiedenti asilo e di rifugiati rimangono estreme: nel 2020 (dati Eurostat) il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato del 34% rispetto all’anno precedente (da 631mila a 416mila domande) e in Italia persino del 39,4% (smentendo ancora una volta i tradizionali luoghi comuni) ma solo 5 stati membri su 27 hanno assorbito l’80% di tutte le domande di asilo: si tratta della Germania con quasi il 25%, della Spagna con il 21%, della Francia con il 20% e della Grecia con il 9%. Chiude l’Italia con un 5.1%.

Ancor più che questi dati, a confermare una situazione di squilibrio è l’analisi delle presenze di richiedenti asilo rispetto al numero di abitanti. La media europea è di solo 931 persone ogni milione di abitanti ma nella maggior parte dei paesi pressoché non c’è nessuno. Giova, per una volta, elencarli: si tratta di Romania, Irlanda, Finlandia, Danimarca, Lituania, Portogallo, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia. Chiude beffarda l’Ungheria con 9 richiedenti asilo ogni milione di abitanti. Dove si trova in tutto ciò l’Italia? Ancora una volta la percezione diffusa viene smentita, in quanto nel nostro Paese ci sono solo 355 richiedenti asilo ogni milione di abitanti: due terzi al di sotto della media europea. Al di sotto di questa media troviamo anche i Paesi Bassi, la Bulgaria e la Croazia.

Ci sono molte ragioni storiche che spiegano gli squilibri sopra illustrati e certo la soluzione non è quella di forzare per decreto i tempi di cambiamenti sociali e culturali profondi, che non possono che essere progressivi. Tuttavia il cambiamento non può essere ulteriormente rinviato perché il quadro attuale rende impossibile la costruzione di un sistema unico di asilo in Europa. Chi non accoglie nessuno, infatti, difende questa posizione e vi costruisce grandi rendite di posizione politica; in particolare nei paesi (quasi) refugee-free (ma anche in tutti quelli con basso tasso di presenze) i governi agiscono con ogni mezzo a loro disposizione per rendere non attrattivo il loro paese per i rifugiati tramite azioni molto concrete quale la destrutturazione dei sistemi di accoglienza, l’inasprimento dei criteri per l’esame delle domande, la mancanza di politiche per l’inclusione sociale dei rifugiati. Il Parlamento europeo provò con determinazione nella scorsa legislatura a modificare questo quadro approvando, nel novembre 2017, una riforma del Regolamento Dublino III incardinata su due pilastri.

Il primo: superare il criterio che, ancora oggi, lega la competenza all’esame della domanda di asilo al primo paese dello spazio europeo in cui il richiedente fa il suo primo ingresso. Si tratta di una nozione giuridica introdotta nel 1990, ovvero in un contesto storico del tutto diverso da quello attuale, proprio con la finalità di riequilibrare le presenze tra i paesi dell’allora CEE, ma che rapidamente si è trasformata proprio nel più micidiale dei meccanismi distorsivi. La Commissione Juncker aveva proposto di temperare questo criterio prevedendo di non applicarlo in caso di pressione migratoria sproporzionata su un dato Paese; il Parlamento europeo, con più decisione, votò per cancellarlo del tutto sostituendolo con un principio di redistribuzione vincolante, a regime, calcolato sul PIL e la popolazione dei diversi stati.

Il secondo pilastro della riforma prevedeva una forte valorizzazione dei legami significativi di un richiedente asilo con un dato paese europeo (legami famigliari allargati, precedenti soggiorni per studio e lavoro, conoscenza della lingua, presenza di sponsorizzazioni) cercando un bilanciamento tra l’obbligo per il richiedente di accettare la destinazione in un dato Paese e il rispetto dei suoi legami più importanti. Il Parlamento si scontrò con l’opposizione generalizzata degli Stati (anche di quelli che a parole si presentano favorevoli alla redistribuzione) e la riforma fallì.

La redistribuzione delle presenze dei richiedenti asilo tra i diversi paesi europei è tornata al centro del dibattito politico di questi giorni, ma quali sono da parte della Commissione europea a guida von der Leyen le proposte in campo? Tentando di trovare il consenso tra posizioni spesso inconciliabili, nella sua “Proposta di Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione” COM (2020) 610 final che sta iniziando l’esame nella commissione LIBE del Parlamento Europeo, la Commissione ha scelto di mantenere il criterio che lega la domanda di asilo al paese di primo ingresso “irregolare”, prevedendo la distribuzione tra i diversi Paesi solo in caso di pressione migratoria considerata elevata su un Paese membro. Diversamente dalla Commissione Juncker, però, quella attuale non ripropone più la definizione di una soglia di crisi oltre la quale scatterebbe la ricollocazione obbligatoria dal paese di primo ingresso.

La Commissione ritiene che gli Stati possano rispettare gli obblighi di cui all’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Ue su solidarietà e ed equa distribuzione delle responsabilità in materia di asilo scegliendo all’interno di una sorta di menù composto da quattro opzioni: 1) l’effettiva ricollocazione di quote di richiedenti asilo dal Paese membro sottoposto a pressione migratoria. Da ciò, salvo deroghe, verrebbero però esclusi i richiedenti provenienti da paesi terzi il cui tasso medio di riconoscimento del diritto d’asilo è inferiore al 20%, i quali verrebbero invece bloccati nel paese di primo arrivo e lì sottoposti alla cosiddetta “procedura di frontiera”; 2) la ricollocazione di quote di stranieri che hanno già ottenuto il riconoscimento di una delle due forme della protezione internazionale (status di rifugiato o status di protezione sussidiaria); 3) la sponsorizzazione dei rimpatri dei migranti irregolari presenti in altri stati; 4) il sostegno a paesi terzi per sviluppare sistemi di asilo, ma anche per attuare politiche generali di respingimento e di contrasto dei flussi migratori.

Nel caso di pressioni migratorie legate a “sbarchi a seguito di operazioni di ricerca e soccorso” i quali “generano arrivi ricorrenti” la Commissione può proporre quote di ricollocamento dei richiedenti asilo (anche vulnerabili), ma gli Stati possono accogliere questa proposta o parzialmente sottrarvisi scegliendo di elargire più fondi per potenziare il controllo dei flussi migratori nei paesi terzi. La nozione di solidarietà, quindi, si monetizza in “contributi di solidarietà”. Se l’ammontare dei contributi è nettamente inferiore a quanto stabilito dalla Commissione, la stessa invita “gli Stati membri ad adeguare il numero e, se del caso, il tipo di contributi.” Se infine, dopo un complesso meccanismo di trattative, “il numero totale e il tipo di contributi” è ancora insufficiente la Commissione adotta un “piano di esecuzione” che prevede “il numero totale di cittadini di paesi terzi da ricollocare”.

Nuovamente si tratta di un vincolo alla ricollocazione solo in apparenza, perché aggirabile attraverso la scelta di una nuova erogazione finanziaria destinata al potenziamento dei controlli nei paesi terzi. Infine, solo se “dalle indicazioni fornite dagli Stati membri risulti un deficit superiore al 30% del numero totale di ricollocazioni” gli Stati saranno “tenuti a coprire il 50% della loro quota anche mediante la ricollocazione o la sponsorizzazione dei rimpatri o una combinazione di entrambi”. In questa concezione di tipo mercantile della solidarietà proposta dalla Commissione Ue gli Stati possono, di fatto, sempre evitare i ricollocamenti o ridurli a numeri risibili, mentre vengono spinti a una maggiore coesione tra loro per realizzare politiche comuni sulla esternalizzazione dell’asilo in paesi terzi e per una strategia comune di rimpatri forzati. L’obiettivo di andare verso una lenta, ma progressiva presenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in tutta l’Europa, correggendo le distorsioni attuali e costringendo gli stati riottosi a diventare paesi di asilo, non solo non viene dunque realizzato ma al contrario viene abbandonato.

La non-riforma proposta dalla Commissione produce infatti almeno due effetti gravissimi che minano ulteriormente il fragilissimo sistema unico di asilo in Europa. Il primo è il rafforzamento delle forze politiche che galvanizzano il consenso popolare attorno alle politiche identitarie e di totale chiusura verso l’accoglienza. Il secondo, non meno paradossale, è quello di aumentare la pressione sui paesi aventi confini esterni marittimi o terrestri, tramite la scelta di bloccare in tali paesi il maggior numero possibile di richiedenti da sottoporre alla procedura di frontiera e, come tali, non soggetti alla ricollocazione.

Applicando ad essi la finzione giuridica del “non ingresso”, secondo la quale i richiedenti sono presenti ma non soggiornanti nel paese di primo ingresso, verrebbero dunque inviati, anche in Italia, a campi di confinamento non dissimili a quelli che sono stati sperimentati in Grecia e lungo la rotta balcanica. In caso di esito negativo della loro domanda di asilo verrebbero infine respinti alla frontiera attingendo al fondo di solidarietà creato dalle sponsorizzazioni dei rimpatri. Non intravedo in questo cupo contesto molti margini di mediazione; nel loro complesso le proposte di riforma avanzate dalla Commissione, frutto di assoluta ed inquietante cecità politica, non possono che essere respinte perché accelerano la disgregazione dei valori fondanti dell’Unione.