Questa è una storia a lieto fine. Un miracolo nel sistema carcerario italiano. Gaspare Trigona, trentasette anni, dodici dei quali trascorsi in carcere, non si è sottratto alle proprie responsabilità, a tal punto da diventare, crescendo, un manifesto vivente dell’eccezione che conferma la regola. La “regola” è che il carcere non funziona rispetto al fine suo proprio della rieducazione. L’eccezione è che il carcerato può “rieducare” sé stesso nonostante tutto, ed essere anche un esempio magistrale per altri. I giovani che sono, oggi, i suoi diretti interlocutori. Nei loro confronti, il monito è incessante: “divertitevi, ma senza sballo”. La sua non è retorica a basso costo, per liquidare con una risata i tempi passati, ma un bilancio onesto del suo vissuto.

Nel decennio dell’alba del nuovo millennio, Gaspare era il punto di riferimento delle discoteche della Sicilia ionica. Dalle sue mani sono passati tutti i flussi di cocaina ed ecstasy che contaminavano, purtroppo, le serate da ballo e non solo. Una gioventù, la sua, bruciata da un percorso di devianza intrapreso per gioco e nella fretta di diventare grandi in un’età dove si aveva, ancora, il diritto di rimanere piccoli. Fino a che la via effimera della droga e un potere alimentato a ritmo di musica e pasticche impattano l’arresto, le sbarre, il carcere “fuori e dentro”. In galera, Gaspare non simula comportamenti e prove di buona condotta, non fa mai credere che i propri errori non siano stati commessi. Cambia modo di essere, divora libri, cerca qualcosa di meglio del diritto penale come destino della sua vita. Trova un sincero cambiamento, senza furbizia, autentico. Sorge in lui la speranza come preludio per un confronto appassionato con il mondo delle istituzioni.

La storia di Gaspare consente di riflettere sugli strumenti di diritto e di fatto che lo Stato offre al detenuto per recuperarlo moralmente e socialmente. Con emozione, l’uomo usa il binocolo della memoria, ripercorre le esperienze vissute in carcere. Lo definisce un “luogo di perdizione” e di “umanità complessa”, dove paradossalmente “è più facile smarrirsi completamente che essere accompagnato in un’azione costante di rieducazione”. Tante sono le inaccettabili ingiustizie commesse da un sistema che costringe alle cose più impensabili: “le docce fredde, i colloqui senza contatto con i familiari, le perquisizioni con flessioni post-colloquio, le simulazioni di buona condotta fino ad arrivare a doversi reinventare giornalmente per sopravvivere in una dimensione di sovraffollamento e privazione dei diritti essenziali e inviolabili”. Oltre la dimensione ontologica Gaspare rivive “la distruzione psicologica dettata dalla poca attenzione che il mondo esterno riserva ai detenuti, le istanze spesso rigettate, la semplice mancanza di aggiornamento della relazione di sintesi”: l’esercizio di un monopolio della forza delle istituzioni che vede il detenuto sconfitto in partenza.

In questa “esperienza di non ritorno”, Gaspare è riuscito però ad andare avanti, non perdendo la forza di tutelare i propri diritti e di costruire una nuova vita. Ciò che gli è stato negato nelle carceri di Catania, Palermo e Agrigento, lo ritrova nel carcere di Rossano, in Calabria, nel quale inizia gli studi in scienze politiche comprendendo che “se e quando lo Stato ti aiuta è più facile cambiare”. Al rancore subentrano la voglia di riscatto, il contatto con la famiglia, devastata dalla esperienza del proprio figlio, così diversa da una lunga tradizione di correttezza e rispetto delle regole. Vive una profonda crisi, scoraggiato dal sistema, dagli operatori sociali e dagli educatori: “pochi in verità accompagnano i detenuti a costruire una occasione ulteriore di vita”. La crudeltà del carcere gli appare un male necessario per comprendere gli errori e per tessere la bandiera del cambiamento.

Decisivi gli incontri con il Partito radicale, con Nessuno tocchi Caino, che raccontano l’inutilità del sistema carcerario e delle molteplici forme di detenzione assunte con modi e tempi che distruggono il detenuto “allontanandolo da qualsiasi forma di democrazia”. Gaspare ci ha creduto e si è ricreduto: oggi è fuori, in affidamento ai servizi sociali. Lavora, prepara la tesi, ma rimane in carcere con la mente e il cuore che batte – pannellianamente – all’unisono con quello della comunità penitenziaria, dei detenuti e dei detenenti. Alla oppressione del sistema carcerario Gaspare oppone la sua lotta di liberazione, il successo di una giustizia che ripara che dal carcere di Rossano lo ha portato a diventare da fonte di disperazione testimone di speranza.