Nichi torna in campo. Con la passione civile e la curiosità intellettuale che lo hanno accompagnato nella sua lunga, e a volte sofferta, avventura politica, da cofondatore di Rifondazione comunista alla presidenza della Regione Puglia. E lo fa con Il Riformista.

Morti nei cantieri e sui posti di lavoro. Morti nel Mediterraneo. Morti bianche, morti dimenticati. Intanto a sinistra è un fiorire di “Agorà”, di convegni, di feste, riposizionamenti tattici. Non sta proprio in questo distacco dalla dura realtà il segno più profondo della crisi della sinistra?
La morte, anche nel vitalismo consumistico della post-modernità, è un rilevatore puntuale delle ingiustizie sociali. È il termometro che misura la febbrile subordinazione del lavoro al Capitale. È la dolorosa epifania dello scarso valore attribuito alla vita altrui: quella degli ultimi, quella dei più poveri tra i produttori di ricchezza, la vita da saltimbanchi del sottoproletariato della globalizzazione, quella dei migranti in fuga da un destino minaccioso.

Un discorso che vale anche per la morte inflitta alle donne come punizione per la mancata sottomissione agli uomini…
Nella serialità senza confini del “femminicidio” c’è la rivelazione dello scarso valore che molti uomini, troppi, attribuiscono alla vita, cioè alla libertà e alla dignità, delle donne. Sono tutti epifenomeni di una violenza sistemica che ci chiama in causa. La morte innaturale delle cronache operaie, come la vita ai saldi nelle imbarcazioni dei profughi e dei fuggiaschi, come i caduti della guerra tra poveri che sempre narra il frangersi della coscienza di classe in mille schizzi di impotenza. Una moltitudine di vite spezzate. E sotto di noi, sotto i piedi dell’Europa civilissima, un mare tramutato in cimitero liquido: queste cose ordinarie e terribili ci chiedono parole cristalline e gesti puliti a anche duri.

Cioè?
Un tempo queste parole e questi gesti si chiamavano rivoluzione. Ma anche riformismo: prima che questa parola venisse travisata e sequestrata dai suoi manipolatori. Oggi è scarsa e rituale l’elaborazione “politica” di questo lutto molteplice, quotidiano e sconfinato, la morte e le morti vengono celebrate ma non interrogate, vengono stilizzate nei reportage del dolore ma non vengono convocate dalla politica. La sinistra è nata e ha avuto senso proprio nella lotta contro un destino che non era deciso dal cielo ma dalla terra, la sinistra è stata la ribellione contro la vita agra e la morte innaturale degli ultimi. Purtroppo la sinistra, nelle sue componenti maggioritarie, è evasa dalla sua storia e dalla sua stessa ragione sociale. Le agorà, per rispondere alla sua domanda iniziale, a me sembrano ontologicamente incapaci di rompere la separatezza tra quella sinistra zigzagante e il suo sparpagliato e smarrito popolo.

C’è chi, come Matteo Orfini e Goffredo Bettini, spingono per un Pd più di sinistra. Altri, sostengono che il Partito democratico è come il socialismo reale: irriformabile. Lei come la pensa?
Il Partito democratico è una costellazione di potentati locali, che spesso si configurano come “piccole patrie” o partiti nel partito. In generale il Pd ha un insediamento significativo nelle grandi aree urbane e nei centri storici e residenziali, nel ceto medio-alto, ma anche nel pubblico impiego, con scarso appeal tra le giovani generazioni e tra i lavoratori subordinati e quelli precari. La sua soggettività politica è figlia di molteplici mutazioni e avvicendamenti di gruppi dirigenti, tutti in varia guisa segnati da una netta curvatura moderata, tutti compromessi con le illusioni della rivoluzione liberista, con l’ideologia della modernizzazione capitalistica e tutte con un approccio apologetico verso la globalizzazione. Il Pd è progressivamente diventato un partito dalla cultura politica effimera e occasionale, in cui il richiamo alle radici è divenuto un fatto sempre più sentimental-commemorativo. La sua missione è stata, prosaicamente, sempre e comunque, dall’agenda Monti all’agenda Draghi, la “governabilità”. In conclusione io non penso che il problema del Pd sia trovare un “salvatore della Patria”, bensì trovare una Patria, scegliere un punto di vista, praticare la radicalità necessario del riformismo delle riforme ripudiando quella versione in simil-pelle di riformismo che i diritti li uccide, li diminuisce, li accorcia, li dimagrisce, li gonfia magari in quanto diritti civili per poter più spudoratamente sgonfiarli in quanto diritti sociali: Renzi docet.

Molto si discute sulle alleanze. Il Pd, sia pure con diverse sfumature, punta ad un asse con i 5 Stelle di Conte. Non è una unione “contro natura”?
Il movimento di Grillo ha saputo accogliere, con una spregiudicata sapienza comunicativa, una straordinaria, direi esplosiva domanda di cambiamento. Ma la sinistra moderata non si era davvero accorta di quanto fosse prorompente e virulenta questa spinta al cambiamento? No. Del resto non se ne era accorta neppure a Genova nel luglio del 2001, quanto scelse la diserzione dinanzi ad un vero sommovimento di popolo e di giovani che contestava i potenti e la loro “zona rossa”. Non se ne era accorta 10 anni dopo, quando 27 milioni di italiani chiesero con un referendum la difesa dei “beni comuni”, contro la privatizzazione dell’acqua, del territorio e della giustizia. Anche allora quella sinistra disertò: certo, votò col popolo “benecomunista” ma il giorno dopo scelse la strada opposta (anche allora fu una specie di Agenda Draghi che per esempio, contro l’esito referendario, impose la privatizzazione dei servizi pubblici locali). Persino il Pd di “Italia bene comune” fece una suicida campagna elettorale nel segno della continuità con l’agenda Monti. Essendo quella coalizione in tutti i sondaggi in clamoroso vantaggio, con quell’ossessione di non spaventare i borghesi (cioè Confindustria e le ambasciate che contano), si riuscì nel capolavoro di non vincere. Voglio dire che non serve demonizzare i grillini, neppure nella versione radical-democristiana di Conte, serve comprendere – così penso io – che il populismo lo sconfiggi se riprendi in mano la bandiera dei diritti sociali, della lotta per la piena e buona occupazione, per un nuovo modello di sviluppo, per una transizione ecologica che non sia quella della eco-chiacchiera al servizio delle solite lobbies (che sono miracolosi: inquinatori e disinquinatori allo stesso tempo!), per una rigenerazione urbanistica, paesistica e culturale del Bel Paese, per una radicale bonifica delle paludi della miseria e della povertà. Aggiungo un argomento che mi sta a cuore particolarmente: il Pd che vota il rifinanziamento della guardia costiera libica continua a peccare gravemente sul terreno dei diritti umani. Si può stare in alleanza contro i sovranisti con Di Maio, ma non a scapito delle questioni di principio, che sono le fondamenta dell’agire politico per chi è a sinistra. Di Maio ha avuto il torto imperdonabile di offrire il destro a Salvini in quella caccia alle Ong che si è tramutata in nuove stragi nel Mediterraneo. Ecco, torna la morte, quella della povera gente, quella che è figlia della cattiva politica, che è cioè figlia della destra.

Ddl Zan, rimandato a settembre. Per farlo morire?
Quello che è accaduto alla proposta di legge sull’omofobia è davvero scandaloso e insopportabile. Il sabotaggio istituzionale della Lega al Senato, con l’esibizione spudorata della natura illiberale della destra italiana, una coalizione la sui testa e il cui corpo sono una fattispecie nazionale del radicalismo di destra, con quelle neppure nascoste venature di fascismo. La piroetta di Italia viva, che appare sempre più un’Italia morta, che con la spregiudicatezza di Renzi gioca a carambola con Salvini una partita in cui sfuma del tutto la questione dolorosa dei crimini d’odio contro la comunità Lgbt e rifulge solo la manovra politica di un provetto stratega della tattica. Il Pd ha fatto bene a tenere il punto e a non aprire spiragli alla finta richiesta di mediazione leghista, e cioè alla dolce sepoltura del Ddl Zan. Se avesse questa stessa chiarezza e coerenza in materia economico-sociale sarebbe tutto un’altra musica. Ma forse sarebbe un altro partito.

Una sinistra in cerca d’identità non deve fare anche i conti con quella vena giustizialista che ancora la pervade? Travaglio applaudito calorosamente alla Festa di Articolo 1 non è un segnale inquietante?
La retorica manettara, l’invocazione repressiva, l’ordalia giustizialista: queste sono sub-culture reazionarie. Il fatto che il berlusconismo imperante abbia impugnato la bandiera del garantismo non deve ancora oggi annebbiarci la vista: quella del Cavaliere di Arcore non era rivendicazione dei diritti e delle garanzie del cittadino, ma arrogante richiesta di impunità, era storia spudorata di leggi ad personam, di interferenze nei processi, di sabotaggio e di delegittimazione dell’autonomia del potere giudiziario. Ma su questo terreno, di cultura giuridica e di cultura democratica, non è più consentito alla sinistra di scivolare e di fare capriole. Perché anche qui, su questo terreno, si può misurare la profondità e la durata di una sconfitta che ci chiama tutti in causa.

 

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.