«Esercitare la leadership a livello mondiale affatica, stanca. E gli Stati Uniti, anche oltre le pecche evidenti dell’attuale presidente, questa stanchezza l’avvertono. E se l’Europa riuscisse a trovare finalmente una sua unità d’intenti e di interessi, di questa stanchezza potrebbe trarne vantaggio». A sostenerlo, in questa intervista a Il Riformista, è uno dei più autorevoli analisti di politica internazionale: Sergio Romano, storico, scrittore, una lunga carriera diplomatica alle spalle che l’ha visto ricoprire ruoli di grande importanza, tra i quali ambasciatore nell’Urss dal 1985 al 1989. E sulla Russia di Putin, l’ambasciatore Romano è molto netto e controcorrente rispetto alla vulgata dominante: «Non credo affatto – dice – che la Russia di Putin sia mossa da una volontà aggressiva. La Russia ha lo stesso problema conseguente alla fine della Guerra fredda, una fine che l’America ha letto e gestito come una resa di Mosca: il problema è di essere considerata interlocutore valido, responsabile e autorevole. E francamente ritengo che sia una richiesta ragionevole e tutt’altro che infondata o destabilizzante».

Ambasciatore Romano, la crisi pandemica globale ha fatto emergere un deficit di leadership mondiale?
Per certi aspetti, sì. Ma di questo non mi sorprenderei più di tanto. Gli Stati Uniti vivono una caduta di autorevolezza straordinaria, dovuta in gran parte all’atteggiamento del loro presidente, in gran parte ma non solo per colpa di Trump. Esercitare la leadership stanca, affatica. E gli americani sembrano stanchi di essere leader.

Lei parla delle pecche di Trump. Sulle vicende interne, legate alla rivolta degli afroamericani scatenata dalla brutale uccisione di George Floyd a Minneapolis, si è detto e scritto di tutto. Meno di ciò che nei suoi quattro anni di presidenza, The Donald ha fatto sul piano della governance internazionale. Proviamo a colmare questa lacuna?
Proviamoci. Vede, Trump è l’uomo che ha provato a smantellare tutte quelle istituzioni e organismi sovranazionali che hanno cercato di disciplinare, in qualche modo, la società internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale: disciplinare i traffici commerciali, i rapporti economici e quelli militari. Da presidente, Trump si è trovato a fare i conti con un mondo di grandi organismi e istituzioni internazionali. Un mondo che Trump, anche per ragioni personali antecedenti al suo ingresso alla Casa Bianca, ha sempre concepito, vissuto, come un qualcosa di ostile, di limitante. Questa costellazione di organismi limita il potere degli Stati. E questo è un legittimo obiettivo, direi il senso stesso di questa costellazione, la propria ragion d’essere. Questi organismi che confliggono con la sua “America first”, Donald Trump li sta sistematicamente smantellando. Non c’è accordo internazionale significativo – Nafta, ClimaS, l’accordo sul nucleare con l’Iran, l’Inf sui missili a medio raggio e altri ancora – che Trump non abbia visto come un obiettivo da colpire e abbattere. E di certo, lo ha esplicitato più volte, non ama l’Unione europea. Tutti questi accordi e organismi sovranazionali, sono visti da Trump come fortemente limitativi della sovranità nazionale. E a ragione, perché proprio per questo li abbiamo pensati e approvati. E così, quando vede sorgere e imporsi partiti o movimenti che sostengono una narrazione politica fondata sul ritorno al popolo della sovranità nazionale, Trump è portato, meccanicamente, a considerare quei partiti o movimenti dei potenziali alleati.

Il predecessore di Trump alla Casa Bianca, Barack Obama, si era fatto sostenitore del principio, magari solo in parte realizzato nel corso dei suoi due mandati presidenziale, di una governance mondiale fondata sul multilateralismo. Ora, da quattro anni allo Studio Ovale siede un presidente che ha fatto del sovranismo di “America first” il suo credo politico e la sua linea di azione. È solo un fatto congiunturale o siamo ad un passaggio d’epoca che va oltre l’America?
Non so se possiamo spingerci sino al punto di poter parlare, già oggi, di un passaggio d’epoca. Di certo, però, non siamo dentro una congiuntura, a qualcosa di importante ma episodico. Tutto accade – le stesse fortune di Trump e di Putin – all’interno di una crisi profonda della democrazia rappresentativa. A farsi largo è un sentimento diffuso di scetticismo, se non di aperto rifiuto di quel sistema di pesi e contrappesi istituzionali che viene vissuto alla stregua degli organismi sovranazionali: un peso, un ostacolo che si para sulla strada di un rapporto diretto tra il “leader” e il “popolo”. La democrazia rappresentativa è stata l’essenza stessa del mondo occidentale, il suo “marchio di fabbrica”… E il suo entrare in crisi rende il sistema ancora più fragile, e ciò è qualcosa di preoccupante.

In precedenza, lei ha fatto riferimento alla stanchezza americana di esercitare una leadership mondiale. Ad approfittarne potrebbe essere il Gigante cinese?
Non c’è dubbio che la Cina possa trarne qualche vantaggio, così come non vi è dubbio che il rapporto tra Washington e Pechino è destinato ad essere sempre più un problema centrale negli equilibri internazionali. Speriamo che i dirigenti cinesi lo facciano con prudenza. D’altro canto, un atteggiamento dichiaratamente ostile da parte di Pechino finirebbe per ricompattare gli americani, anche quella parte che non è certo in linea con Trump. Se guardo al passato, mi ritengo moderatamente ottimista: Pechino ha dimostrato un certo equilibrio nella gestione dei suoi rapporti con l’America, anche quando gli interessi economici, commerciali, geopolitici erano alquanto confliggenti.

E la Russia di Putin? Dobbiamo temere un neoimperialismo russo?
No e ancora no. Non credo che la Russia sia aggressiva. Ciò che vuole, e ritengo a ragione, è di essere considerata interlocutore valido, responsabile e autorevole. Vede, gli Stati Uniti hanno gestito molto male la fine della Guerra fredda, concependola come una vittoria dell’America e comportandosi di conseguenza. La Russia si è sentita minacciata alle sue frontiere quando gli ex Stati satelliti dell’impero sovietico sono entrati a far parte della Nato. Questo “accerchiamento” ha preoccupato la Russia, e ritengo questa una preoccupazione legittima. La Russia può essere “contenuta” ma non umiliata. E resta comunque una potenza di cui non si può fare a meno.

L’Europa potrebbe approfittare della “stanchezza” americana?
Dovrebbe quanto meno provarci. Perché l’Europa può trarre vantaggio dal declino della leadership americana. Ma deve crederci e non dividersi, come continua a succedere, quando uno dei leader europei più attivi su questa linea, il Presidente francese Emmanuel Macron, prova ad agire per riempire i vuoti lasciati sullo scacchiere internazionale dall’America di Trump. Nel momento in cui la Francia prende l’iniziativa, ecco scatenarsi le rivalità, e persino a Roma sono preoccupati…

In questo scenario, l’Italia che ruolo può assumere?
L’Italia continua a vivere in modo contraddittorio. Da un lato l’Europa viene fortemente ostentata, ma dall’altro lato restiamo un Paese avaro di iniziative politiche. Forse per una innata prudenza, ma il grande problema, a mio avviso, è che il Paese non è abbastanza coeso al proprio interno. Per misurare il grado di coesione di un Paese, nel nostro caso l’Italia, è consigliabile tenere d’occhio quante volte viene detto: «Dobbiamo essere uniti». Quando lo si ripete tante volte, vuol dire che tanto uniti non lo siamo. E questa mancanza di coesione indebolisce fortemente la nostra iniziativa internazionale. Ci rende più deboli, vulnerabili.

Ambasciatore Romano, da più parti, a proposito di ripetizioni, si continua ad affermare che dopo questa crisi pandemica nulla sarà più come prima. Per l’Italia cosa può significare?
Fuori da una narrazione compiaciuta sull’orgoglio nazionale dimostrato nell’affrontare l’emergenza virale, la realtà evidenzia come questa epidemia abbia spaccato il Paese, tra quanti ritengono che sia assolutamente prioritario, totalmente direi, tutelare la salute come bene comune, e quanti, pur non disconoscendo l’importanza della tutela della salute, ritengono che sia più importante far ripartire l’economia e accumulare ricchezza. Personalmente mi auguro che una volta contenuta l’emergenza Covid-19, questa faida interna possa essere ricomposta. A beneficio del sistema-Italia. Noi oggi stiamo vivendo un passaggio decisivo, forte, verso una società digitale. E in questo, come Italia siamo molto indietro. Non c’è solo la società digitale, ma anche l’intelligenza artificiale. Un esempio: oggi si parla molto delle vetture senza guidatore, come l’investimento del futuro in questo settore. Bene, ma senza la banda larga, il 5G, senza la realizzazione di città informatizzate, non si va da nessuna parte. E i sogni restano tali. Dobbiamo agire più rapidamente, investire maggiori risorse finanziarie e umane in questo campo, se non vogliamo essere tagliati fuori da un mondo, anche economico, sempre più globalmente digitalizzato.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.