Sarò controcorrente, ma di fronte alla barbarie deprecabile ed eversiva degli avvenimenti di sabato scorso, io credo che la solidità della democrazia si misuri soprattutto sulla freddezza e il pragmatismo della reazione. L’opposto di quello che vediamo in queste ore. In quest’ottica, la prima domanda da porsi è questa: la nostra democrazia, che si dichiara, o quantomeno aspira ad essere, una democrazia matura, ha gli strumenti per arginare e resistere al virus della violenza e della destabilizzazione? La mia risposta è sì. Ne ha tanti. Non solo perché ha un bagaglio di esperienza di contrasto all’eversione e alla destabilizzazione che è stato accumulato, possiamo dire, sin dalla nascita delle Repubblica (diciamo, simbolicamente, a cominciare dall’attentato a Togliatti nel 1948). Ma anche perché nessuno potrebbe onestamente pensare che i deliri di frange socialmente e politicamente marginali abbiano alcuna speranza di attecchire in misura significativa sul resto della popolazione. Questo non esclude il disagio diffuso, gli episodi di ribellismo o di disperazione, che purtroppo il contesto epocale in cui siamo ci squaderna di fronte.

Inoltre, al di là delle considerazioni generali, la nostra democrazia ha anche strumenti concreti per reagire decisamente di fronte agli episodi gravissimi, come quello cui abbiamo assistito. Strumenti di polizia, di prevenzione e repressione, e strumenti giudiziari. Non bisogna dimenticare che nessun fenomeno associativo, quand’anche in ipotesi lecito, può offrire copertura – per il nostro ordinamento – ai comportamenti individuali e collettivi di chi, quei fini, ipoteticamente leciti, volesse perseguire. La libertà di associazione, la libertà di riunione, la libertà di manifestazione del pensiero, nel nostro ordinamento, non assicurano alcuna copertura agli atti illeciti, e al concorso di più persone nel loro compimento, posti in essere in nome delle finalità associative, o in occasione di una riunione o come conseguenza della manifestazione del pensiero. Stabilito ciò. E dunque stabilito che gli strumenti di reazione e repressione esistono (tant’è, per essere chiari, che al momento i responsabili di quegli atti sono stati assicurati alla giustizia e probabilmente nei prossimi giorni altri, collusi o favoreggiatori, lo saranno; tant’è che inchieste sono state avviate per valutare cosa non ha funzionato nella strategia di prevenzione da parte delle istituzioni cui è assegnata la cura dell’ordine e della sicurezza pubblica). Stabilito ciò… dicevo, la questione di cui si dibatte in questi giorni è però un’altra. E si traduce nella seconda domanda: c’è qualcosa che la politica possa o debba fare in più rispetto a quanto non faranno già le autorità di polizia e giurisdizionali?

È su questo piano che si misurano la freddezza e il pragmatismo. Perché se la politica entra in gioco su una questione in cui viene invocata una matrice politica (il neofascismo) essa deve innanzitutto considerare gli effetti “politici” del proprio intervento e valutare costi e benefici di qualsiasi scelta: sia quella di agire che quella di astenersi confidando sull’azione, come detto, di polizia e magistratura. Detto chiaramente, non basta invocare una previsione normativa secondo cui il governo può, con decreto-legge, sciogliere questa o quella associazione/partito politico, imputato della finalità di voler ricostituire il partito fascista (legge Scelba e XII disposizione transitoria e finale della Costituzione). Infatti, la circostanza che il governo “possa” agire, peraltro in casi “straordinari di necessità ed urgenza”, non lo esime dall’assumersene la responsabilità, innanzitutto politica (art. 77 cost.). Perché il governo non è un giudice, nemmeno in questo caso.

Torniamo alla domanda: premesso che gli anticorpi esistono, si vuole “oggettivamente” politicizzare la questione? Quali sono i benefici e quali sono i costi? Sono domande a cui bisogna dare risposte pragmatiche, fredde, quelle che dà una democrazia matura che non ha paura di apparire né troppo forte, né troppo debole. Il vero problema di queste ore è che tutto cospira contro una prestazione di lucida freddezza e pragmatismo della politica. Il dibattito è, invece, completamente inquinato da opinioni e accuse che si contrappongono violentemente, senza esclusione di colpi, tra le forze politiche. E nessuno riesce a scrollarsi di dosso la sensazione dell’operare di opposti opportunismi, ormai scatenati a demonizzare non i violenti e le loro associazioni, ma le posizioni degli avversari politici rispetto a quegli episodi. Fino al punto di mettere in discussione la legittimità democratica, non dei facinorosi, ma dell’avversario politico che siede nelle stesse istituzioni che dovrebbero compattamente reagire. Al di là del fatto che siamo effettivamente in campagna elettorale, lo scontro a cui assistiamo è diventato già, di per sé, una ulteriore campagna elettorale. In cui la posta in gioco però, non è la vittoria elettorale, ma la legittimazione a dirsi democratico.

Nel loro volume di qualche tempo fa, dall’inquietante titolo How Democracies Die (Come muoiono le democrazie), due studiosi dell’Università di Harvard, Levitsky e Ziblatt, mettono in luce come uno dei più grossi problemi di questa fase dell’era democratica sia la polarizzazione estrema e l’assenza di qualsiasi fair play nella lotta politica americana (e non solo). E invocano la necessità che la politica riscopra la virtù della forbearance, della tolleranza e della lealtà tra avversari, esaminando tutte le conseguenze devastanti cui può condurre l’atteggiamento opposto, sempre più diffuso. Probabilmente, se fossero vissuti in Italia, Levitsky e Ziblatt quel libro l’avrebbero scritto già molti decenni fa. Ma non sarebbe stato un successo, perché nessuno considera l’Italia come un modello. E oggi rischiamo ancora una volta di confermare, purtroppo, questo giudizio. Insieme all’esibizione dell’eterno ritorno dell’uguale.