Mosca ha dato il via al secondo smembramento territoriale dell’Ucraina dopo quello del 2014. Con l’obiettivo di mettere il guinzaglio definitivo al governo di Kiev. Ma qual è il contesto simbolico di questo attacco? Nel proclama che ha dato il via all’attacco – quello che ha anticipato il riconoscimento delle repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk, nell’est dell’Ucraina – il presidente Vladimir Putin ha fatto ampi riferimenti alla storia della Russia zarista, sovietica e postcomunista. Per dimostrare che “da tempo immemorabile, le persone che vivono nel sud-ovest di quella che è stata storicamente terra russa si chiamano russi e cristiani ortodossi”. Secondo Putin “l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia o, per essere più precisi, dai bolscevichi, la Russia comunista”. Per l’autocrate del Cremlino, non è concepibile una nazione ucraina separata da quella russa. Peccato che, in un referendum del dicembre 1991, subito dopo la fine dell’impero sovietico, oltre il 90 per cento degli ucraini (e perfino la Crimea) abbia votato per l’indipendenza.

La verità è un’altra. La resa dei conti tra Russia e Ucraina dopo 30 anni di tensioni si iscrive nel tentativo di Mosca di ridiscutere l’ordine europeo creato dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Reset è la parola d’ordine di Putin che oggi rivendica per la Russia una sfera di interessi privilegiati nello spazio un tempo dominato dall’Urss. Nessuna cancelleria europea lo ammette pubblicamente, ma il corollario della dottrina Putin è: convincere l’Occidente a trattare la Russia come se fosse l’Unione Sovietica. Una potenza da temere, dotata di privilegi speciali sui suoi vicini e di una voce autorevole sullo scacchiere globale. Secondo questa dottrina solo pochi stati possono esercitare questa autorità e godere di una completa sovranità. Oltre alla Russia, questi stati sono Usa, Cina e India. Tutti gli altri devono piegarsi ai loro desideri. Paesi più piccoli come l’Ucraina o la Georgia non sono pienamente sovrani e devono rispettare gli aut aut della Russia. Secondo Putin, lo stesso vale nel rapporto tra gli Usa e l’America Latina.

L’obiettivo generale del presidente russo è quello di invertire le conseguenze geopolitiche del crollo sovietico. Per realizzarlo serve indebolire le democrazie liberali e proteggere i regimi autoritari. L’aspetto più buffo di questo approccio è che, per la Russia, la collaborazione con i dittatori è un modo per accreditarsi come potenza conservatrice, rispettosa dei valori tradizionali e paladina dell’ordine delle nazioni. Da questa parte c’è la Russia, punto di riferimento degli autocrati, non soltanto nei confini del vicinato, come nel caso della Bielorussia o del Kazakistan, ma anche in giro per il mondo: vedi il sostegno a Cuba, Libia, Siria e Venezuela. Dall’altra parte, secondo il Cremlino, gli Usa e l’Europa rappresentano un fattore di instabilità a livello globale perché, viceversa, promuovono cambi di regime e conseguenti disordini come nel caso della guerra in Iraq nel 2003, della Primavera araba nel 2011 e, appunto, dell’Ucraina oggi, visto il tentativo di assorbirla nell’area della Nato.

L’ordine simbolico della dottrina Putin si appoggia anche su un pilastro psicologico. Quel trauma che Putin descrive come l’umiliazione degli anni ’90, quando una Russia indebolita deve piegarsi all’agenda fissata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei. Putin descrive il crollo sovietico come la “grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”: a causa di questa tragedia ben 25 milioni di russi si sono trovati fuori dalla Russia e, in particolare, 12 milioni di russi si sono ritrovati segregati nel nuovo stato ucraino. Nel trattato “Sull’unità storica di russi e ucraini”, pubblicato nell’estate scorsa e oggi distribuito alle truppe russe con logica maoista, Putin scrive che, nel 1991, “le persone si sono ritrovate all’estero durante la notte, portate via, questa volta davvero, dalla loro patria storica”. Ce n’è abbastanza per richiamare un parallelo storico assai inquietante: la grande frustrazione nazionalista che negli anni dopo la Prima Guerra mondiale alimentò lo sciovinismo della Germania sconfitta, preparando l’ascesa al potere del nazionalsocialismo.

Dopo il ridimensionamento subito con il crollo dell’Urss, Putin ha cercato dunque di ridare un ruolo alla Russia. Nonostante la recente espulsione dal G-8 per l’annessione della Crimea, Mosca detiene ancora il suo potere di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in quanto potenza vincitrice della Seconda Guerra mondiale. In più, il suo profilo di superpotenza energetica, nucleare e geografica la rendono indispensabile sulle grandi questioni internazionali. Sul piano militare, la Russia ha recuperato parecchie posizioni, ricostruendo con successo le sue forze armate dopo la guerra del 2008 con la Georgia: dotata di armi atomiche e missili ipersonici, è la principale potenza militare regionale, con la capacità di proiettarsi su altre aree del pianeta, anche mediante attacchi cibernetici.

Il senso di frustrazione di Mosca è stato alimentato in anni recenti dal progressivo allargamento della Nato verso est. Un allargamento che Putin considera illegittimo, contrario ai patti stabiliti dopo la fine dell’Unione sovietica e minaccioso per la sicurezza nazionale. L’ossessione che la Nato, non contenta di ammettere o aiutare semplicemente gli stati post-sovietici, possa minacciare la sopravvivenza della Russia, benché abbia scarsi appigli nella realtà, appare come una diretta conseguenza della narrativa vittimistica basata sulla sconfitta post-sovietica. In più, il disegno di una Russia di nuovo grande e rispettata nel mondo presuppone che siano messi in discussione i pilastri dell’ordine internazionale piantati sull’egemonia strategica dell’Alleanza atlantica e sull’ordine giuridico liberaldemocratico. Un ordine che, per Putin, ha fatto il suo tempo. Non è un caso, dunque, che i media controllati dal Cremlino abbiano diffuso l’allarme secondo cui l’Ucraina potrebbe essere il trampolino di lancio per l’aggressione della Nato. Un po’ è ossessione, un po’ è strategia.

Per destrutturare il campo avversario il leader russo ha sostenuto gruppi antiamericani ed euroscettici in Europa. Ha appoggiato i movimenti populisti di sinistra e di destra su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ha inquinato le campagne elettorali in diversi paesi dell’ovest. Tra i suoi obiettivi principali c’è quello di spingere gli Stati Uniti a ritirarsi dall’Europa. Operazione che trova oggi un terreno assai favorevole rispetto a solo dieci anni fa. Nei suoi quattro anni di presidenza, Donald Trump ha più volte mostrato irritazione nei confronti della Nato e dei suoi alleati europei e ha minacciato spesso di ritirare gli Usa dall’organizzazione. Oggi Joe Biden sta cercando di riparare i danni fatti da Trump, ma è ormai evidente che gli Stati Uniti non hanno più nessuna voglia di fare da scudo all’Europa come hanno fatto negli ultimi 70 anni. La crisi di identità e di funzione dell’alleanza transatlantica apre dunque a Putin la strada per realizzare il suo obiettivo finale: superare l’ordine internazionale liberale – basato sulle regole del dopo Guerra Fredda e promosso da Unione europea, Giappone e Stati Uniti – a favore di uno più favorevole alla Russia.

Entro i confini dell’Europa, Mosca sperimenterebbe così un sistema misto: ispirato, da un lato, al concerto di stati del diciannovesimo secolo (senza la presenza ormai sbiadita degli Usa) e, dall’altro lato, alla logica del Patto di Varsavia, con la Russia libera di intervenire a suo piacimento sugli stati satelliti (ieri Ungheria e Cecoslovacchia, oggi Ucraina e Bielorussia). Sul piano globale, emergerebbe una nuova configurazione tripolare nella quale la Russia, gli Stati Uniti e la Cina dividono il mondo in tre distinte sfere di influenza. Xi Jinping, da Pechino, si è già dichiarato disponibile. Ma l’Europa ha ancora il tempo e le risorse per opporsi a questa minaccia.

 

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