Radicalità va cercando. L’ingegner De Benedetti taglia con un rasoio molto affilato i partiti e i sindacati, da sempre per lui una vil razza dannata. È stata soprattutto loro la colpa della deriva dell’economia italiana, dice. Il Pd è solo “un partito di baroni imbullonati” che il popolo disilluso ha prima tradito e poi deciso di salvare con le primarie in un gesto di rivolta contro gli orribili apparati. Il sindacato è anch’esso un sepolcro imbiancato responsabile della diseguaglianza, della fuga dei cittadini dalla politica, della precarietà.

Si è quasi per magia ricomposta, in questi giorni di lunghi festeggiamenti per il Nazareno risanato, la coppia che negli anni ’80 sognava di abbattere l’economia mista. Il Professore e l’Ingegnere si ritrovano infatti di nuovo insieme, stavolta però sotto le bandiere della radicalità come manifesto per il nuovo Pd. Quarant’anni fa il loro incontro era nato sotto ben altre stelle. Prodi, in veste di presidente dell’Iri, cercava di procedere verso la privatizzazione dello Sme come segno di un sicuro mutamento di fase. I critici immaginavano che il preferito dalla svolta potesse essere proprio l’Ingegnere. Su certe opzioni di politica industriale nacque, in ogni caso, lo scontro duro con Craxi. Il leader del garofano delle ondate di privatizzazione non voleva saperne. E comunque esigeva che allo Stato rimanesse in dotazione il 50% delle quote azionarie per conservare un chiaro potere di indirizzo e di controllo.

I suoi uomini nell’Iri non solo osteggiavano la svendita ai privati del gigantesco apparato pubblico collocato in dismissione, ma proponevano addirittura di ampliare la presenza statale nei settori strategici del software “dove l’Italia era rimasta indietro, rafforzando la Finsiel pubblica con l’acquisto della Ois, un’azienda del gruppo Olivetti (S. Colarizi, Passatopresente, Laterza, 2022). L’irrilevanza ormai cronicizzata dell’Italia nel campo dell’innovazione e dell’informatica è riconducibile anche alle ubriacature privatistiche assaporate quando il ministro Carli proponeva, con il soccorso del vincolo esterno, una ritirata generale del pubblico. Le scelte politiche e imprenditoriali dei primi anni ’90 hanno ucciso un arrugginito (anche per via dei cosiddetti “oneri impropri”) modello di sviluppo, senza però riuscire a proporne un altro più adatto al ciclo mondiale del neoliberismo. Le colpe di una politica travolta dalla magistratura, e spiazzata nel suo ruolo essenziale di progettazione di un nuovo governo dell’economia, sono arcinote. Sulle responsabilità specifiche dei capitani storici del capitalismo italiano continua invece una certa reticenza.

Eppure il quadro della inadeguatezza del padronato nel gestire la fase della mondializzazione è del tutto trasparente. Nei primi anni Novanta “in Italia erano entrate in sofferenza le industrie della chimica, della gomma e dell’informatica di cui era stata fiore all’occhiello l’Olivetti di De Benedetti, alle prese con settemila esuberi. A determinare questa situazione aveva concorso anche il fallimento degli obiettivi internazionali che De Benedetti si era posto – un accordo con l’Att (American Telephone and Telegraph) e il controllo della Société Générale de Belgique. Non era stato il solo imprenditore a non raggiungere la meta dell’espansione sui mercati esteri: anche Pirelli aveva subìto una sconfitta nel tentativo di assumere il controllo della Continental; la Fiat non era riuscita a stringere accordi prima con la Ford poi con la Chrysler” (Colarizi, op. cit.).

La decapitazione dei vertici delle forze politiche affidava alle imprese, protagoniste in prima fila delle bordate antipartitocratiche, un’assoluta sovranità nel gestire le imprevedibili parabole economiche, ma i risultati dell’autogoverno degli industriali non sono apparsi brillanti. Alle privatizzazioni seguirono affannose ricerche di partner esteri e soprattutto l’invocazione di compratori anche al ribasso per acquisire aziende decotte. Il passaggio delle imprese sotto il controllo della direzione centrale situata all’estero inibiva l’innovazione tecnologica, marginalizzava la produzione industriale. È stato osservato che “il complesso di queste operazioni di controllo del capitale straniero conduceva l’industria italiana ad abbandonare gradualmente i settori tecnologicamente d’avanguardia (elettronica, nucleare, chimica fine, farmaceutica) per rifugiarsi nei settori meno avanzati” (A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, Bollati Boringhieri). In sofferenza nei mercati, l’unica potenza di interdizione che le grandi industrie in ritirata sprigionarono fu quella verso le procure. L’evviva della stampa ad ogni tintinnar delle manette si concedeva sin quando nelle retate finivano i “cinghiali” dei partiti. Non appena però i cancelli delle patrie galere si aprivano per i signori del capitale, le grandi famiglie, forti questa volta del sostegno dei giornali (di loro proprietà), avevano le risorse per uscire presto dai guai.

Simona Colarizi ricorda in questi termini alcuni passaggi di quegli anni: “Nel novembre 1993 De Benedetti ottenne subito gli arresti domiciliari dopo una sola notte a Regina Coeli, naturalmente previa piena confessione a Di Pietro di reati compiuti nelle vesti di impotente concusso. Agnelli non era mai stato toccato, e per avere l’immunità a Romiti erano bastati il suo commovente pentimento davanti al cardinale arcivescovo di Milano e tre ore di intenso colloquio col pool in Questura, dove era arrivato in elicottero, per rilasciare una dichiarazione spontanea”. Fa bene De Benedetti a rammentare nel suo saggio-manifesto le carenze della politica, per colpa delle quali “un intero popolo è rimasto solo”. Andrebbe però valutato anche l’impatto non meno devastante che, nell’emersione della solitudine del lavoro al tempo della globalizzazione, ebbero le fatali operazioni che videro le imprese occupare una postazione centrale nella costruzione di un capitalismo antipolitico.

Mentre in Francia o in Germania il sistema dell’economia, nelle fasi di innovazione accelerata, contava sul ruolo regolativo e costruttivo del pubblico per un atterraggio più morbido entro le dinamiche mondiali dei capitali e delle reti della finanza, a Roma le imprese giocavano le loro carte nel rigonfiare le grandi ondate dell’antipolitica. Presentavano la caccia grossa ai partiti e alla “casta” come il formidabile shock ciclicamente indispensabile per rianimare la mortifera azienda Italia. Ma già nel 1996 il destino delle imprese di De Benedetti nell’informatica e nella telefonia era segnato, la Fiat arrancava sotto le grinfie della General Motors e nel panorama economico rimanevano solo “tre «campioni nazionali» semipubblici (come l’Eni, l’Enel e la Finmeccanica). Troppo poco per navigare nei mari alti del mercato globale” (V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi).

Le imprese senza Stato, in un tempo che mostrava la propagazione di variegati capitalismi politici, hanno visto un recupero di connessioni con il potere nelle forme anomale del berlusconismo (l’impresa che si fa Stato) o negli esercizi di influenza di apparati economico-mediatici nella determinazione delle leadership e delle specifiche politiche della sinistra. Emblematica di questa eterodirezione è certamente la svolta dell’agosto del 2000, quando in “un incontro riservato svoltosi in Sardegna tra il segretario dei Ds Veltroni, quello dei democratici e popolari prodiani e l’editore Carlo De Benedetti” si accantonò la candidatura di Amato, “macchiato” dal passato socialista, e fu scelto Rutelli come leader dell’Ulivo (N. Tranfaglia, La transizione italiana, Milano, 2003). Anche nell’estate del 2012 l’Ingegnere entrò in maniera significativa nelle dinamiche interne al Partito democratico. Promise di interrompere il fuoco quotidiano di Repubblica e L’Espresso contro Bersani, preso di mira per una presunta carenza di dono carismatico al cospetto di un Vendola allora molto sponsorizzato dalle firme più autorevoli del gruppo editoriale, in cambio di un semplice ritocco dello statuto del Pd, un codicillo per consentire a un giovane sindaco toscano di partecipare alle primarie di coalizione.

Quanto alle politiche pubbliche e alle linee di diritto del lavoro varate nella Seconda Repubblica, De Benedetti imputa alla sinistra e ai sindacati l’adozione di scelte nuoviste, nel complesso tragiche, che “si sono trasformate in boomerang” diffondendo una irrimediabile alienazione politica in vaste fasce sociali. La denuncia della svalorizzazione del lavoro, dei costi delle delocalizzazioni, degli effetti negativi della drastica riduzione del potere contrattuale dei grandi sindacati è molto forte nei toni. L’Ingegnere afferma che “un paese che si regge su costo basso del lavoro, niente investimenti e scarsa produttività è un paese che vive di espedienti, senza solide basi economiche, esposto a ogni crisi. L’ingiustizia è anche antieconomica”. Poiché lo scritto di De Benedetti affonda il coltello sulla pelle viva dei partiti e dei sindacati, imputando loro una sostanziale incapacità nel contrastare “la svalutazione del lavoro e la stagnazione della produttività”, corre allora l’obbligo di formulare una domanda.

È vero, come si legge nel libro, che in questi anni “non solo il sindacato non si è adeguato alle nuove forme contrattuali, lasciando senza tutele intere categorie di lavoratori perlopiù giovani, a tempo determinato, a chiamata, a progetto e altro; non ha nemmeno saputo tutelare gli interessi dei suoi interlocutori tradizionali, la massa dei lavoratori dipendenti”. Però la netta denuncia delle tendenze dissolutive di un capitalismo della precarietà e delle esclusioni si rivela in questo caso radicale quasi quanto il vuoto di memoria. De Benedetti ha infatti smarrito il filo di momenti salienti della storia recente quando se la prende con gli attori politici che spesso lo hanno persino ascoltato quale imprescindibile oracolo nel concepimento delle loro legislazioni ostili al lavoro e causa non irrilevante della fuga degli operai e dei precari dalla sinistra politica.

Sul Sole 24 ore dell’11 gennaio 2018 si possono leggere queste parole lapidarie, quasi la confessione, agli occhi di un novello soldato della critica intransigente, di un grave reato politico-sindacale: “A Renzi io dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il Jobs Act – qui lo dico senza vanto, anche perché non mi date una medaglia – gliel’ho suggerito io”. Indovini, Ingegnere: chi ha pronunciato queste frasi da medaglia d’oro nella corsa alla Radicalità?