Per capire come si sia potuti arrivare a condannare a sei anni di carcere per corruzione e concorso esterno una persona per bene come Armando Veneto, ex parlamentare Udeur e “Maestro” dei penalisti calabresi (e non solo), bisogna conoscere la parola magica che è più eccitante di un drappo rosso davanti alla procura di Nicola Gratteri. È sufficiente agitare il termine “avvocato”. Non c’è niente da fare, non appena la Dda di Catanzaro sente la parola magica, è bene che tutte le toghe “sbagliate”, quelle degli avvocati, comincino a preparare la propria difesa.

A volte, come è capitato all’avvocato Pittelli e all’avvocato Stilo, è anche necessario mettere in una sacca la tuta e l’accappatoio, indumenti fondamentali in carcere, e prepararsi a porgere i polsi alle manette. E meno male che non sono più in uso gli schiavettoni. Qualcuno li avrebbe applicati volentieri a qualche toga “sbagliata”. L’avvocato Armando Veneto è un grande penalista, è stato Presidente dell’Unione delle camere penali, non è chiamato “maestro” per piaggeria di qualche allievo, ma perché è stato ed è un esempio della tradizione dei grandi avvocati del sud, come Giovanni Leone e Francesco De Martino, che sono stati maestri di diverse generazioni di studenti e di giovani legali. Ma Armando Veneto è calabrese, e questo, specie negli ultimi anni, è già un reato. Spesso diventa addirittura l’unico argomento possibile nelle motivazioni di certi provvedimenti. Lui stesso infatti, poche sere fa, commentando la sentenza del gup di Catanzaro Matteo Ferrante, si domandava quale esercizio di fantasia avrebbe dovuto compiere il magistrato per giustificare quei sei anni di carcere elargiti al legale per corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa.

Il paradosso è che, quando a Catanzaro c’era un altro procuratore capo, Vincenzo Lombardo, l’avvocato Armando Veneto, già sfiorato dall’inchiesta che portò il nome di ”Abbraccio”, perché stava a indicare un legame affettivo tra esponenti della ‘ndrangheta e ambienti della società civile e istituzionali, era stato escluso dall’inchiesta con tante scuse. Archiviato. Non era lui l’“avvocato” di cui si era parlato in un’intercettazione ambientale in carcere, con la lettura labiale sulla bocca di un pentito. Anzi, non c’era proprio di mezzo nessun avvocato, ma solo un tipo che così veniva chiamato, o forse si faceva chiamare, perché era una sorta di faccendiere che dava qualche buon consiglio.
L’inchiesta riguardava fatti del 2009 e un caso di corruzione in atti giudiziari. Centoventimila euro sarebbero stati consegnati a un magistrato, Giancarlo Giusti, relatore in un tribunale del riesame, che avrebbe convinto gli altri due colleghi ad annullare l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di esponenti della famiglia Bellocco.

Il giudice Giusti ebbe una triste sorte. Prima era stato arrestato, su iniziativa della Dda di Milano, ai tempi diretta da Ilda Boccassini, per essersi fatto condizionare da esponenti del clan Valle-Lampada, che lo avrebbero corrotto con offerte di soggiorni in grandi alberghi e l’accompagnamento di prostitute. Era già agli arresti domiciliari quando scoppiò anche il caso “Abbraccio”. Il magistrato subì in seguito anche l’abbandono da parte della moglie e una solitudine totale, finendo con il suicidarsi nel 2015, dopo un precedente tentativo nel carcere di Opera, in cui era stato salvato dagli agenti di polizia penitenziaria. Triste vicenda, cui l’avvocato Veneto è estraneo, e lo si capisce dalla sequenza dei fatti.

Era infatti subentrato a un collega nella difesa di una delle persone accusate di corruzione subito dopo il momento in cui l’accordo era stato stipulato, più o meno nell’agosto del 2009. Ed è il 27 di quel mese la data in cui il tribunale del riesame aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Rocco e Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo. I tre avrebbero versato al giudice Giusti quarantamila euro a testa, totale centoventimila. L’avvocato Veneto sarebbe stato l’”intermediario”. Lo si evinceva da un’intercettazione ambientale attraverso la lettura di un labiale, in cui la parola “avvocato” pareva non solo chiara, ma anche sufficiente a chiamare in causa il famoso penalista. Ma ben presto lo stesso procuratore capo Vincenzo Lombardo si scusò pubblicamente per la gaffe e in seguito anche gli stessi uomini della squadra mobile e i pm della Dda ammisero l’errore. L’inchiesta nei confronti di Armando Veneto non iniziò neppure. Tanto che lui stesso oggi riesce a fatica a ricostruire quel che accadde in quei giorni. Siamo nel 2014. Il 2015 è segnato dalla condanna in Cassazione per il processo di Milano che determinerà il suicidio del giudice Giusti.

Che cosa succede negli anni successivi? All’apparenza niente che riguardi direttamente l’avvocato Veneto. Di cui tutti, dalla squadra mobile ai pubblici ministeri e giudici (dal gip fino alla Cassazione) avevano accertato l’estraneità del penalista dai fatti, che nel frattempo avevano portato alle condanne dei corruttori. Ma successivamente due dei tre imputati condannati sono deceduti e il processo è rimasto abbandonato, con le carte chiuse in un cassetto. L’avvocato Veneto è rimasto sconvolto quando, in un bel giorno di due anni fa, ha ricevuto dalla procura della repubblica di Catanzaro un avviso di chiusura delle indagini. Il che vuol dire una sola cosa, che la Dda intende chiedere il rinvio a giudizio. È stato allora che il penalista ha dovuto fare parecchi sforzi di memoria. Giancarlo Giusti, chi era costui? A parte la sua tragica sorte, certo che Armando Veneto lo aveva conosciuto. «Era stato nel mio studio per pochi mesi, mentre si stava anche preparando per il concorso in magistratura. Gli ho dato una mano perché non sapeva niente di diritto penale, ma non era certo un mio amico. Ma dal famoso labiale hanno dedotto che lo avessi avvicinato per corromperlo».

Fatto sta che le carte improvvisamente riemergono dal cassetto e si ricomincia daccapo a mettere nel mirino l’avvocato Veneto. Il quale così scopre di esser stato indagato fin dal 2012 ed è costretto a supplire addirittura al vuoto di attività della stessa magistratura, perché nessuno si era neppure preso la briga, negli anni, di rileggere quegli atti che avevano portato alle precedenti archiviazioni. Solo a questo punto si scopre così che un pm di Reggio Calabria aveva inviato a Catanzaro nel 2014 le dichiarazioni di due “pentiti”, che però non erano state prese in considerazione, ritenute irrilevanti dalla Dda di Catanzaro.

Ma quel che non valeva nel 2014 –sarà il nuovo corso- improvvisamente diventa importante per accusare nel 2020. Basta la parola. Tanto che pare inutile sia rileggersi le carte del precedente processo, che le memorie difensive dello stesso avvocato Veneto. L’unico accertamento, quasi una telefonatina tra amici, è quello, da parte della Dda di Catanzaro, di chiedere ai colleghi di Reggio se i due “pentiti” siano attendibili. Punto. È così che si “indaga” e poi si condanna in Calabria. È il nuovo corso: basta la parola “avvocato”. Anche se si tratta solo di un faccendiere. La caccia alle toghe “sbagliate” continua. Ma questa volta si è puntato in alto.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.