Roma, aeroporto di Fiumicino.
Imbarco del volo per Milano. Pieno di esponenti politici e di volti Mediaset: sono due dei tanti, eterogenei mondi cui Silvio Berlusconi ha dato corpo e che ha tenuto insieme per una vita intera, oltre quelli di sport, cultura, spettacolo ed edilizia. Ognuno ricorda un aneddoto del cavaliere, ognuno sa che sta andando a un appuntamento, triste, con la storia. Arriva Mario Draghi, discreto, eppure consapevole. In aereo, siede due file di dietro di me e chiacchiera con tutti. Atterrati, raggiungiamo il Duomo.

Organizzazione impeccabile, sulla piazza già molte persone, ma un diffuso senso di pace e tranquillità, che ammorbidisce il dolore di tutti. Dietro ai mondi forgiati dal Dottore, una sconfinata, variegata, stupenda compostissima marea di gente. Tra le bandiere, prevalentemente di Forza Italia e Milan, scorgo un cartello: “Il più italiano degli italiani”. Ecco perché tanto trasporto pubblico per il dolore prima, e la morte poi, di un italiano eccellente, che in una nazione dove è quasi impossibile aprire un negozio, è riuscito a creare aziende mastodontiche, grazie a idee ed entusiasmo.

Il popolo di cui Silvio Berlusconi è figlio e rappresentante è lì, commosso e composto come a lui sarebbe piaciuto molto. Lo notano tutti: i volti Mediaset, quelli di Milan e Monza, politici e capi di Stato esteri. Arriva Gianni Letta scortato dal figlio Giampaolo. Per una volta è molto provato. Saluta, l’amico, il compagno di una cavalcata indimenticabile, e siede accanto all’altro indimenticabile complice di mille imprese: Fedele Confalonieri, sereno e contrito. Sono tanti i personaggi che con sé hanno un figlio. Famiglia e lavoro amorevolmente mischiate, all’insegna della continuità: un’altra caratteristica del mondo del Cavaliere.

Io entro in Chiesa, saluto tanti ex colleghi, colleghi attuali, e -in attesa che arrivi la prima- anche la seconda famiglia del Dottore: i cuochi Michele e Davide, gli uomini della sua amorevole scorta, Frank e Ivan, le segretarie Serena, Betti e Stefania. Una vita a prendersi cura del “Dottore”, oggi con l’espressione di chi ancora si preoccupa più per lui che non per sé. Perché’ questa era una inclinazione che Silvio Berlusconi ingenerava spontaneamente in ognuno di noi: ci preoccupavamo più per lui che per noi, pur essendo lui molto più forte di noi. Loro, i suoi collaboratori, lo sapevano: quando il Presidente è uscito di casa per andare al San Raffaele, ha avuto un’esitazione nel salire in auto: si è voltato e ha rivolto uno sguardo profondo, carico di significato, a Villa San Martino. Così era lui: indomito e coraggioso, buono e a volte un po’ malinconico. Ma qualcuno di loro, visto quello sguardo, ha per la prima volta pensato che potesse essere l’ultima volta che salutava il Dottore, e che lui lo sapesse.

La platea si saluta, allarga le braccia, sospira, finalmente sorride. Sugli schermi dentro la chiesa vengono proiettate immagini dalla regia mossa ma dolce di Milano 2 ripresa dall’alto, poi parte la diretta del viaggio di Silvio da Arcore al Duomo. È come se ci dicesse: “Sto arrivando da voi”. E tutto si placa, come quando lui arrivava alle riunioni di partito preceduto in sua assenza da litigi al fulmicotone, e scendeva improvvisamente la calma.

Assieme al feretro, ecco la famiglia di Silvio Berlusconi. Sui volti, ancora i segni delle lacrime. Tutti consapevoli e umili. Belli. Naturalmente intonati alla grande compostezza che avvolge il duomo. L’omelia dell’Arcivescovo di Milano tratteggia l’uomo, bisognoso di amore e assetato di vita. “Vivere per mettere a frutto l’occasione e i propri talenti”. Piersilvio annuisce. Sembra il ritratto del papà. La cerimonia è asciutta e sobria. La regia bellissima, suggestiva. A me tornano in mente molte immagini. Molte espressioni così gravide di espressività del Cavaliere che non mi pare vero di essere al suo funerale. Mi rendo conto di non aver mai nemmeno una volta pensato di dovervi assistere. Eppure, siamo qui. Addio Silvio.
Non ci posso ancora credere.