Non ha fatto neppure in tempo a fare una scappata al Palazzo di giustizia, pur abitando a due passi, per partecipare al commiato del suo “caro amico” Francesco Greco. Piercamillo Davigo era troppo impegnato con un altro “caro amico”, Silvio Berlusconi, cui ha dedicato il lancio in anteprima del suo libro, L’occasione mancata, edito dal Fatto e pubblicato sul Fatto. Quando si dice la fedeltà. Bisogna dire che l’ex “dottor Sottile”, piercavillo o pieranguillo che sia, non delude mai per originalità. La sua tesi è che Silvio Berlusconi non solo non è stato mai perseguitato dalla magistratura, ma addirittura è stato privilegiato e protetto. Da chi? Niente di meno che dai giudici. Cioè da coloro che emettono le sentenze, quelli che dividono i colpevoli dagli innocenti, insomma.

Per Davigo quel che conta è il parere del pubblico ministero, l’ipotesi da cui partono le indagini. Questa è l’unica verità, mica il risultato di quel che succede nei tribunali al termine dei processi. Le sentenze, insomma. Va riconosciuto all’ex pm milanese ora pensionato, di non usare nei confronti del leader di Forza Italia la solita tiritera delle “leggi ad personam” (su cui nessuno spiega mai se fossero norme giuste o sbagliate per il “signor chiunque”, l’unico nominato dal codice penale) piuttosto che delle prescrizioni. No, lui cita, in un caso anche con dovizia di particolari, tre famose inchieste che si sono concluse con l’assoluzione di Berlusconi. Tre esempi che gli servono per concludere che «l’atteggiamento dei giudici, all’esito dei vari gradi di giudizio… non può che essere definito di grande benevolenza». Speriamo non intenda alludere a qualche forma di corruzione nei confronti dei suoi ex colleghi del settore giudicante. Sembra invece piuttosto l’eco di quei film e filmetti che suonavano più o meno così: la polizia arresta e la magistratura scarcera. Inni alla custodia cautelare. E si può supporre che in quei casi uno come Davigo starebbe dalla parte dei carcerieri.

È un finto arreso, gli va dato atto di mostrarsi sempre indomito, anche quando aveva fatto una figura meschinella nel non volersi scollare dal ruolo di consigliere del Csm. Anche quando, come ieri nello scritto sull’organo di famiglia delle toghe requirenti, cita malamente l’ “habent sua sidera lites” (ogni controversia segue il suo fato), di Piero Calamandrei, come se davvero pensasse che la giustizia è una sorta di gioco da non prendere troppo sul serio. Ma Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato del 1935, mette proprio in guardia, con parole di grande incoraggiamento, i giovani legali dall’arrendersi alla sorte dell’amministrazione della giustizia: «Ma tu, o giovine avvocato, non affezionarti a questo motto di rassegnazione imbelle, snervante come un narcotico… mettiti fervidamente al lavoro colla sicurezza che chi ha fede nella giustizia riesce in ogni caso, anche a dispetto degli astrologi, a fare cambiare il corso delle stelle».

La causa può perderla l’avvocato difensore, ma anche il rappresentante dell’accusa. Ed è questo che Piercamillo Davigo non accetta. Non solo perché vorrebbe sempre vincere, ma perché pare per lui inconcepibile che dei giudici abbiano osato ribellarsi all’ipotesi accusatoria. Possiamo azzardare anche che l’orgoglio ferito frigga ancor di più se gli sconfitti sono un pm elogiato per la sua competenza e insieme la procura di quelli bravi, i Migliori, quelli di Milano? Aggiungiamo maliziosamente che se quello che ha vinto i processi si chiama Silvio Berlusconi, sono chili quelli del sale sparso sulle ferite.

Il processo che rode di più è quello delle tangenti alla guardia di finanza. Davigo ne descrive minuziosamente i passaggi, e più si legge più si capisce (anche per chi non è avvocato né magistrato) quanto inconsistenti fossero quelle “prove” a carico dell’allora presidente del Consiglio, come rilevato dalla Cassazione che lo assolse “per non aver commesso il fatto”. Stiamo parlando dell’inizio della persecuzione giudiziaria – parola che a Davigo non piace, ma a molti sì, si rassegni- con il famoso invito a comparire mentre Berlusconi presiedeva un incontro internazionale sulla criminalità a Napoli e lo scoop del Correre della sera che ne diede notizia. C’è poco da scherzare e da invocare il fato e le stelle, caro dottor Davigo. Non c’era alcuna prova che Berlusconi avesse commesso un reato, e quel fatto, scoop del Corriere compreso, ebbe un rilievo notevole nella caduta del primo governo guidato dal leader di Forza Italia. Conseguenza politica di indagini infondate.

Si rammarica ancora l’ex pm di Mani Pulite, delle assoluzioni nei processi Mondadori e Mills. Cita minuziosamente i nomi delle persone condannate e poi butta lì il suo “Berlusconi assolto”. E poi ancora nell’inchiesta “Sme-Ariosto”, in cui, secondo l’accusa, avrebbero dovuto bastare le testimonianze della ex fidanzata di Vittorio Dotti e di un’altra persona per far condannare Berlusconi. Ma, dice con sincerità Davigo, «La cosa che più mi ha sorpreso nelle vicende riguardanti Silvio Berlusconi e i suoi coimputati è stata la continua lamentela di una persecuzione giudiziaria». Lei come si sentirebbe, cittadino Davigo, se dopo centinaia di perquisizioni e processi sopra processi avesse già portato a casa una sessantina di assoluzioni (a fronte di una discutibile sola condanna)? Penserebbe di esser un colpevole che l’ha fatta franca grazie alla benevolenza dei giudici?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.