Ho letto un articolo di Giuliano Ferrara che mi ha fatto molto pensare. Con la sua solita maestria – scrive maledettamente bene, non sono quasi mai d’accordo con lui, ma ammazza se scrive bene – dava conto del suo allontanarsi rinunciatario dal bailamme di opinioni, analisi strategiche e geopolitiche de ‘noantri, retoriche da veterani di guerra che non hanno manco fatto il militare, o di esperti di Russia ed Occidente prestati solo per caso ad altre professioni, di cui siamo pieni. Al contrario del suo solito, passionale e infervorato coinvolgimento, questa volta diceva che sentiva il bisogno di estraniarsi, di andare da un’altra parte, lasciando che quello che deve compiersi si compia, senza che ad esso si accompagni il rito pagano del “dico la mia” e dunque partecipo.

Che sia vera o no questa sua dichiarazione – non credo che possa esserlo conoscendo la natura del dichiarante – non mi cambia niente. Mi ha fatto riflettere. In questo mese di delirio e di sofferenza, sangue, morte in Ucraina, anche io sono stato risucchiato dal vortice creato dalla guerra, dalla propaganda che la contraddistingue, dal bisogno di esorcizzare la paura commentando, discettando, analizzando. Ognuno nella sua bolla social, o qualcuno anche in televisione che ormai viaggia a reti unificate e con un solo tema principe della prima, seconda e terza serata. Mi hanno colpito però in particolare fin dall’inizio gli editorialisti e in generale i grandi giornali: mai avevo visto, ma una guerra come questa penso che non l’avesse ancora vista nessuno, un fuoco di fila, organizzato come se l’editore fosse unico e bisognasse spingere governo e cittadini ad entrare in guerra “boots on ground”. Gli attacchi ai “pacifisti”, con l’aggiunta del marchio di “traditori” filo putiniani affibbiato a destra e manca, sono solo un riflesso: non si può fare fuoco se non si ha un nemico, e il nemico interno è l’unico alla tua portata se non sei al fronte.

In questa guerra, che bisogno c’era di farlo? Come se si trattasse di convincere davvero la gente ad indossare elmetto e mimetica e cominciare ad esercitarsi con l’M16? O erano indirizzati al governo, al parlamento, gli editoriali bellici, per convincere Draghi che l’unica strada era andare in Ucraina con le truppe? Casomai, grandi editorialisti, grandi giornali, forse dovevano fare i grandi editorialisti e i grandi giornali davvero, difronte ad una cosa così importante per noi e per le generazioni future come la tragedia di una guerra: possibile che per leggere articoli di un certo livello che non somiglino a un volantino per l’arruolamento, si debba andare a tradursi il WSJ o WP? Una stampa “sana”, avrebbe dovuto aiutare a mantenere i nervi saldi, derubricare a minchiate le tifoserie, trattare per quello che sono, e non da oggi, leader di partiti che dalla “figura di merda mondiale” della maglietta, al silenzio ormai tombale sul “grande statista che considero come un fratello minore”, se dovevano fare le “quinte colonne”, sono stati tra i peggiori investimenti del Cremlino.

Macchè, dalla foto oscena di una bambina con il fucile fino all’eroe un po’ romantico, un po’ kantiano e un po’ nazista, si sono prodotti in uno dei livelli più bassi mai raggiunti. Per fortuna che c’erano e ci sono gli inviati, che quelli scrivono e raccontano ciò che vedono e ciò che vivono in prima persona. Il ruolo dei giornali, nelle democrazie alla cui reale consistenza partecipano, dovrebbe essere anche quello di veicolare un pensiero sobrio, non allineato, mostrare il “lato oscuro della Luna”. Perché nelle democrazie ognuno ha un suo ruolo. I negoziatori che trattano per il cessate il fuoco, forse anche Biden che fa il poliziotto cattivo e Macron che fa quello buono, i giornalisti che scrivono di fatti e ospitano i punti di vista, la società civile che si divide a seconda di come la pensa, insomma, uno scenario “maturo”, difronte ad una cosa con la portata che ha quella innescata dall’invasione di Putin e del suo esercito di un paese nel cuore dell’Europa.

E allora, tornando a quell’articolo di Giuliano Ferrara, mi è venuto in mente che forse il problema è che nessuno crede veramente al proprio ruolo in questo organismo che chiamiamo società, repubblica, democrazia. Siamo tutti un po’ tutto e un po’ niente. Esiste una democrazia capace di produrre decisioni che non siano il risultato di un conflitto sociale, di una dialettica tra governati e governanti? Senza che vi sia una spinta dal basso, contraria e critica a ciò che fanno i governi, senza che si inneschi quella tensione, perché ogni voce contraria è dileggiata, scientificamente mal rappresentata, che cosa si produce? Il termine è orribile, ma lo scrivono sempre, gli editorialisti: “democrature”. Ognuno faccia il suo dunque. Comincio da me e faccio anche autocritica per averlo fatto troppo poco, il mio. Sono un antimilitarista da sempre, il militare non l’ho fatto, quando ancora la leva era obbligatoria. Ho l’art. 28 ( congedo a vita ) per “sindrome depressiva in soggetto psicolabile”, perché mi feci passare per matto. Quelli come me che avevano già reati politici e militavano in organizzazioni della sinistra extraparlamentare, se facevano domanda di obiezione, li spedivano in caserma punitiva. Il rapporto che fecero i carabinieri del mio paese, diceva che fingevo, che dovevo essere tratto in arresto per “renitenza alla leva”. Ma alla fine mi “punirono” solo applicandomi un articolo, il 28 appunto, più pesante del classico “sindrome depressiva”.

Era una pratica la nostra, obiettori illegali, consolidata: eravamo a decine nel mio collettivo. Tutti matti. Lo dico per dire che io l’elmetto non ho mai voluto mettermelo. Anche quando lo imponeva la legge e anche in tempo di “pace”. Penso che la nuova Europa, che dobbiamo per forza oggi contribuire a costruire, debba essere percorsa da un nuovo antimilitarismo. Che questa guerra debba far nascere un nuovo grande movimento europeo contro il riarmo. Che ai nazionalismi che soffiano sul fuoco della guerra, dobbiamo saper contrapporre una “identità europea”, un europeismo dal basso capace di riconoscere i sogni di libertà e democrazia che provengono da est, ma anche di non consegnarli alla logica degli stati, dei governi e peggio ancora degli Imperi e degli eserciti.

Ho amici fraterni, compagni di lotta, che dicono: ”ma se non c’era la resistenza ucraina, se non li aiutavamo con le armi, a quest’ora di che negoziato e di che pace parlavamo?”. Li capisco, ma non voglio più contrapporre in forma assoluta il mio pensiero sul trasformare una resistenza in guerra tra eserciti. Non serve a niente. Le cose stanno come stanno, e voglio invece discutere con loro come aiutare i profughi e la popolazione civile di un paese martoriato da un despota. Voglio discutere con loro come combattere la guerra, “luogo dove decidono i potenti” come dice Papa Francesco. Che ognuno faccia il suo, e le nostre democrazie fragili, il nostro futuro precario ed incerto, forse ne usciranno migliori.