Da bordo della “mare Jonio”, nave del soccorso civile

Il film “Don’t look up” mi è piaciuto, ma non pensavo potesse diventare addirittura profetico. Scorrono le immagini dei vertici a Bruxelles, e mi torna alla mente il meteorite. Stiamo inviando armi, tante armi all’Ucraina che combatte contro l’invasione, per evitare di scatenare una guerra mondiale. La scelta è questa, tra due guerre, non tra guerra e pace. La parola “pace” fa capolino ogni tanto, spesso alla fine di ogni discorso pronunciato dai portavoce, o dagli editorialisti con lo stinger in spalla e gli stivali sul ground di un comodo studio con computer. Come fosse una parentesi, un orpello grammaticale giusto perché sembra brutto non dirlo. Come in Don’t look up intanto, noi stiamo a discutere se “è giusto o meno inviare le armi”, mentre tonnellate e tonnellate di equipaggiamento bellico, ogni volta più potente, più efficiente, più tecnologicamente avanzato, partono come i pacchi di Amazon durante il Black Friday.

Vi sono ragioni etiche per sostenere chi si difende da una aggressione, ma non bastano, non possono bastare, a coprire un vuoto pneumatico, impressionante, di visione politica. Sta accadendo questo: per la prima volta si è superata persino la soglia dell’inconcepibile: “prevedere” l’uso di armi nucleari come opzione. Il primo è stato Putin, poi gli ha risposto Biden. Fino ad ora, scritto nero su bianco nei trattati, il comune accordo tra le potenze della deterrenza era che chi possedeva questo terribile strumento di morte planetaria, “non lo avrebbe mai usato per primo”. Ora invece, questa specificazione è sparita. “In caso di minacce alla nostra esistenza” dice il despota del Cremlino. “Biden apre su armi nucleari in casi estremi”, battono oggi le agenzie. Questa è la discussione là sopra, ai piani alti, e il meteorite avanza mentre noi guardiamo in televisione lo spettacolo della nostra fine, e ci azzuffiamo tra noi su ciò che appartiene già al passato. Perché la guerra, quando occupa tutto lo spazio pubblico, ha anche questa caratteristica: fa diventare vecchio in fretta ogni argomento, come se scorressero i numeri di un timer. Tu parli, e intanto, inesorabile, lo zero si avvicina. In quel punto, alla fine della Storia, non ci sarà più spazio per nessun dibattito, per nessuna ragione, per nessun ripensamento.

Ora c’è il meteorite. È quello il problema. Sulla carta il nostro “libero arbitrio” è limitato: dall’altra parte c’è uno che a prescindere potrebbe decidere una escalation definitiva. Abbiamo disseminato il mondo di armi di distruzione di massa, ne abbiamo fomentato la produzione, la vendita, la diffusione. Abbiamo coccolato gli autocrati se utili al mercato, al business. Uccidevano oppositori politici e giornalisti scomodi, e allora? Bombardavano con il fosforo, ma tanto succede anche nelle migliori famiglie, come a Falluja nel 2004. L’atomica ce l’ha il Pakistan e ce l’ha l’India, un inquietante personaggio ha sparato un missile l’altro ieri dalla Corea del Nord fino a giungere a 170 km dal Giappone. Dunque, noi possiamo decidere solo cosa facciamo noi, sperando nel senso di misura del nemico. E cosa facciamo? Proponiamo al mondo intero la nostra visione “etica” dell’avere potere e potenza? Contrapponiamo alla forza brutale e oppressiva di un tiranno, una intelligenza politica e sociale in grado di metterne a nudo tutta la assurda pericolosa inutilità per la vita di tutte le genti?

No. Niente di tutto questo. Qualcuno ha deciso per noi che la “forza” è composta di un solo ingrediente: le armi, la guerra, l’uguale e contrario sul campo di battaglia. Nessun riferimento alla necessità di intervenire, immediatamente, sul piano politico con una proposta altissima di negoziato. Biden è volato in Polonia, invece che recarsi a Pechino. Lunghissime disquisizioni sul gas, che sta finanziando una guerra di aggressione contro la quale inviamo armamenti, e niente, il nulla cosmico, su come si intende, nel momento più critico della nostra esistenza, affrontare la questione di un nuovo ordine globale per “la pace tra i popoli”, perché è evidente che quello che c’era prima è finito da tempo. Sento già gli editorialisti con lo stinger che urlano: ”Bisogna essere in due per trattare!”. Esatto. Bisogna che gli Stati Uniti abbiano davvero voglia di negoziare con la Cina ad esempio. E che l’Europa, visto che ha una guerra in casa, smetta di farsi suggerire da Washington cosa fare. Bisognerebbe che i vertici restituissero una Europa politica, non solo militare.

Certo, nella testa di chi ci ha condotto sull’orlo di questo abisso non vi è alcun pensiero sul fatto che tutto quello che sta accadendo rappresenti in qualche modo anche il più grande fallimento di più generazioni di classi dirigenti, di governanti, che si sono succeduti con l’ambizione di stare al mondo governando il mondo senza che precipitasse in un’altra guerra mondiale. No, vi è ancora Von Clausewitz nella testa di chi comanda: “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Mi permetto di suggerire un piccolo aggiornamento, che dopo 190 anni magari ci vorrebbe: “la guerra non è che la sostituzione della politica con altri mezzi”. E il meteorite continua la sua corsa, mentre noi discutiamo “se è giusto o no inviare armi”. La “forza” è innanzitutto la forza di una visione, la capacità di agire dentro la contraddizione, non contro di essa. Oggi, dopo questi tre vertici “storici” sappiamo che siamo paurosamente deboli difronte a ciò che incombe. Siamo tutti più spaventati, serpeggia il terrore di essere nelle mani di chi non ha la statura morale e politica per maneggiare il destino del mondo.

Questo provoca un cedimento etico, della serie “affari loro”. “Che muoiano gli Ucraini”. “Rinunciare al gas russo, fare dei sacrifici per non pagare le bombe che ammazzano donne, uomini e bambini? Troppo difficile”. E via così. E questa assenza di azione politica, oltre la guerra, per giungere il più rapidamente possibile alla sua fine, indebolisce anche la resistenza ucraina. La “militarizzazione” della resistenza, senza una sponda e una iniziativa politica “globale” adeguata, produce un effetto da “proxi war”, un Afghanistan nel cuore d’Europa. Rinchiude nel “Patria o morte” i sogni europei di quelle giovani generazioni di ragazzi e ragazze ucraini, che sognano la libertà in un continente capace di generare convivenza e non di lasciare riempire di bare la loro terra. E consegna ad un nazionalismo obbligato e pieno di odio eterno, chi combatte per difendersi, ma più si allunga il tempo di questo massacro generalizzato, non finirà mai più di combattere per vendicarsi. Papa Francesco, l’unico leader mondiale disarmato che parla di un diverso modo di “governare il mondo”, con la cura e non mostrando i denti, ha una visione politica. Gli deriva dalla spiritualità con la quale sente la vita e la morte di altri esseri umani, dentro di sé. Viene dileggiato dai grandi strateghi, da coloro che hanno autorità ma non autorevolezza, ma essi non conoscono e non offrono alcuna visione politica per il futuro. Si rifanno perlopiù ad un presente, ma che l’evoluzione della guerra e il suo divenire “unico discorso”, trasforma inesorabilmente in “già passato”.

Papa Francesco ci trasmette ciò che la Bibbia greca definisce “splagchnizomai”: quella compassione, che in realtà è mossa da un “amore viscerale”, una indignazione per la sorte e la sofferenza di tanti fratelli e sorelle, un amore che muove, che ti fa compiere gesti che ti vengono da dentro. Un amore materno, che prova una madre verso il proprio figlio. È questo che disturba i potenti: pensare che sia indispensabile provare amore verso il prossimo per poter avere una visione politica che permetta di raggiungere la pace. L’aumento delle spese militari, che è sempre stato una costante in questi anni ad opera di ogni governo, è esattamente la misura della incapacità politica finanche di usare bene i soldi pubblici: ma se l’esercito italiano è con le “pezze al culo” come dicono per motivare il riarmo, dove li hanno spesi le decine di milioni di euro al giorno fino ad ora? Il 2% del PIL per le spese militari, lo decise l’allora governo Renzi nel 2014, su forte pressione del premio Nobel per la Pace Barack Obama. Questo è il disastro in cui siamo: dobbiamo sperare che quando fanno i vertici non decidano di usare l’atomica.

Anche un tono diverso, più pacato, meno retorico e senza richieste di carri armati e jet, come nella seduta parlamentare dove è intervenuto il presidente ucraino, mi sembrava una lumicino nel buio. Ma ha ragione Tony Capuozzo: quel “cercare disperatamente la pace” pronunciato da Draghi, fa impressione per l’aggettivo. Disperatamente, come chi non sa che cosa diavolo fare. La guerra è l’unica grande idea che ci viene in mente, quando abbiamo bisogno di pace. E il meteorite continua la sua corsa per darci l’abbraccio mortale.