Con le parole che Mattarella ha ribadito anche dinanzi al corpo diplomatico e ai rappresentanti delle istituzioni e della società civile dovrebbero finalmente cessare le sollecitazioni che gli sono state da tempo rivolte affinché lanciasse un segno di disponibilità a rimanere al Colle per soccorrere un sistema dei partiti ancora in gran confusione. Il chiacchiericcio della ermeneutica quirinalizia, attenta alle sillabe, agli ammiccamenti e ai non detti, dovrebbe arrendersi di fronte al fatto piuttosto solido per cui un secondo mandato è da escludere in maniera definitiva.

Quando Napolitano sostenne che la sua seconda elezione si configurava come una irripetibile eccezione tutt’altro che positiva e che la ricostruzione degli equilibri costituzionali comportava un’azione rigorosa dei partiti sfilacciati lanciò un forte grido d’allarme sulla tenuta dell’ordinamento. E Mattarella, rifiutando che una eccezione si consolidi aprendo una frattura insanabile, non intende recedere dal rigore costituzionale che ha ispirato il settennato. Per robuste ragioni di principio, da parlamentarista convinto quale è, e quindi non per motivi di personale stanchezza, esclude l’idea stessa di un secondo mandato in quanto lesiva dei cardini più delicati della forma di governo della Repubblica. Inutile precisare che il capo dello Stato non sembra prestare il minimo ascolto alla bestemmia istituzionale di una sua permanenza a tempo al Quirinale. Solo chi sottovaluta l’etica della convinzione che muove le parole e le scelte del Presidente potrebbe credere che si tratti di una semplice maschera di circostanza pronta ad essere accantonata dinanzi a una insistenza dei partiti che diventa assordante e quindi persuasiva entro una situazione di stallo e di ingorgo istituzionale. La seconda eccezione democratica che approda a una rielezione al Colle sarebbe una soluzione ancora più grave della crisi che il sistema rivela in pieno nella sua incapacità di concordare un successore autorevole quale riconosciuto custode della Costituzione.

Quale è stato il connotato essenziale della politica istituzionale intrapresa nella stagione di Mattarella? Con Mattarella continua la figura presidenziale come ancora di riserva che è chiamata a garantire la tenuta dell’ordinamento eroso da un duplice malessere: la crisi di legittimazione dei partiti che determina le onde selvagge del populismo, la crisi economica e sociale che alimenta le forze dell’euroscetticismo sovranista. Questa duplice sfida che lesiona la forma democratica richiede al Presidente di svolgere un impegnativo lavoro di raccordo per mantenere il sottile equilibrio sul piano interno, assicurando la funzionalità del congegno istituzionale nel prolungato vuoto dei partiti, e, sul versante esterno, per spendere anche la sua personale autorevolezza e conservare con la saggezza della parola la credibilità del sistema politico e la affidabilità del tessuto economico-finanziario. Proprio il congiungersi delle due crisi ha determinato gli accesi scontri istituzionali tra Mattarella e i partiti. In occasione della nascita del governo gialloverde il capo dello Stato ha invocato il suo cruciale ruolo di garante non solo delle regole del gioco ma anche dei contenuti economico-finanziari percepiti come pericolosamente insicuri per vie delle scelte irresponsabili del M5s e della Lega a favore di un regista maldestro del piano B che contemplava l’uscita dall’euro. Il Presidente dinanzi al nome di Savona evoca la necessaria condizione della legittimazione esterna di ogni esecutivo e respinge la designazione di un ministro dell’Economia che con le elucubrazioni profetiche sul cigno nero appare come un «sostenitore di una linea più volte manifestata che potrebbe provocare l’uscita dell’Italia dall’euro».

Dinanzi alla preoccupazione di Mattarella di scongiurare una emergenza economico-finanziaria («La designazione del ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato per gli operatori economici e finanziari»), gli alleati gialloverdi (ai quali si aggiunge una barricadera Meloni, mentre significativa è la difesa di Mattarella da parte di Forza Italia, che non si confonde con il fronte sovranista) rispondono con parole di fuoco. Il capo politico grillino Di Maio rivendica il nome di Savona («Non è un facinoroso. Lo abbiamo conosciuto insieme io e Salvini quindici giorni fa») e rivolge al Paese una vera e propria chiamata alla rivolta di piazza come coronamento della richiesta di impeachment. «Quella di ieri –dichiara Di Maio- è stata la notte più buia della democrazia italiana, Mattarella ha deciso di scavalcare le sue prerogative impedendo la formazione di un governo che con il contratto avrebbe avuto la maggioranza assoluta. So che siete incazzati, mi avete mandato un sacco di messaggi. Non possiamo stare a guardare, bisogna reagire subito con fermezza. Oggi appenderò una bandiera italiana fuori dalla finestra e vi chiedo di fare altrettanto. Rivendichiamo l’orgoglio di essere italiani. Chiamo i cittadini alla mobilitazione, fatevi sentire, è importante che lo facciate sin da ora. Organizzeremo delle manifestazioni pacifiche, simboliche. Il 2 giugno invito tutti a venire a Roma per una grande manifestazione».

Poiché la crisi è di sistema e non risparmia anche gli attori ritenuti “normali”, un forte e inopinato momento di tensione è scoppiato tra il Quirinale e il Pd in occasione della crisi del governo cosiddetto giallorosso e del naufragio della operazione “responsabili” da reclutare in ogni modo per dare vita al Conte ter. Dinanzi al rifiuto di uno scioglimento delle Camere in piena pandemia, alcuni settori del Pd hanno gridato al complotto presentando la defenestrazione di Conte come una sciagura maturata «per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile». La fuga di Zingaretti è parsa inevitabile dopo la sconfitta di una linea “Conte o morte” che sfiorava il ruolo di garanzia del capo dello Stato e alimentava scenari complottistici («Renzi ha fatto cadere il governo Conte, ma credo che al di là di Renzi ci sia stato qualcosa di più grande che si è mosso»). Il mite presidente Mattarella non ha esitato ad accettare la via dello scontro. Che è stato duro per raffreddare gli impeti grillini e salviniani («Il governo del cambiamento non poteva nascere, i Signori dello Spread e delle banche, i ministri di Berlino, di Parigi e di Bruxelles non erano d’accordo. Rabbia? Tanta. Paura? Zero. Ci vediamo a Roma. Non si molla di un millimetro») ed è parso ugualmente rigoroso e senza reticenze per sedare gli assurdi malumori del Pd orfano dell’avvocato del popolo.

Come accorto regista della genesi del governo Draghi “senza formula politica” Mattarella ha dato prova della sua grande levatura politica, che nulla ha a che fare con la trita storiella sul presidenzialismo di fatto. La responsabilità di non disperdere il suo prezioso lavoro di salvagente della Carta ricade ora sui partiti, chiamati ad esprimere un adeguato successore che (come per fortuna accade regolarmente in una “seconda Repubblica” per il resto così destrutturata) sia in grado di fornire a un sistema politico friabile l’immagine di un Quirinale che si erge nella nebbia come un solido ancoraggio di lealtà repubblicana.