Il piano
Per la ripresa serve anche un New Deal per le città
Che cos’è la Fase-2? Un mistero, che non sarà risolto dai trecento supertecnici chiamati dal Governo al capezzale economico dell’Italia. Soprattutto perché si discuterà del COME muoversi per le strade e stare insieme in un ufficio o in una pizzeria, ma non si parlerà del CHE COSA si può e si deve fare per ripensare il nostro sistema produttivo, che era sostanzialmente arcaico prima dell’epidemia e che rischia di essere spazzato via dal dopo. La domanda di fondo, invece, che dovrebbe trovare risposte operative e concrete è: che cosa si può fare per rilanciare produzione e domanda interna, al netto – e oltre – dell’attuale rete produttiva?
Le teorie su cui si discute molto (e con molta confusione) sono: un nuovo Piano Marshall (il gigantesco prestito americano del dopoguerra che aiutò i Paesi sconfitti a finanziare la ricostruzione); o un New Deal (come ha proposto Fausto Bertinotti) come quello con cui il presidente Roosvelt risollevò gli USA dalla depressione del 1929, e che consisté nel finanziare opere pubbliche – lo ha raccontato ieri Guzzanti su queste pagine – anche inutili, ma necessarie a ridare lavoro e quindi vita e speranza a milioni di famiglie. La prima tendenza, porta come strumento al MES e/o agli Eurobond. La seconda, rilancia l’intervento statale di keynesana memoria, con tutte le riserve che questa strategia ha prodotto negli ultimi anni su dirigismo, corruzione, lievitazione dei costi, incontrollabilità della spesa.
Ma il fatto è che oggi, un New Deal è possibile e praticabile, attivando migliaia di cantieri in un progetto di ampia visione, su cose utilissime e sostanziali per il futuro del nostro Paese. Basterebbe infatti stabilire che l’obiettivo di questo Patto – largamente finanziabile in parte con i fondi europei, in parte con una agile normativa su tributi, costo del lavoro e incentivi all’emersione del lavoro nero – sia la riqualificazione del territorio e soprattutto, riqualificazione, manutenzione e perfezionamento dei servizi delle aree urbane piccole e grandi. Un obiettivo di cui si parla da anni (da Salini di Impregilo, a Renzo Piano con le sue periferie da ricucire, all’Osservatorio Risorsa Patrimonio – che riunisce CNR, Romeo Gestioni, Nomisma, IFMA e Cresme Consulting) senza che mai la politica cogliesse il senso profondo della “rivoluzione” strutturale e culturale che questo impegno comporterebbe.
Ma forse, la depressione economica che ci aspetta per il dopo pandemia, è uno spettro sufficiente a rilanciare l’attenzione su queste idee. Il disegno è semplice, chiaro, lineare: aprire cantieri per bonificare, risanare, manutenere, e portare a gestione redditizia, l’immenso e meraviglioso patrimonio naturale, urbanistico e culturale dell’Italia. Un piano più semplice e agibile – e certamente più utile – del Ponte sullo Stretto. A maggior ragione utile al nostro Paese, nella continua evidenza dei disastri ambientali e urbanistici che mettono in ginocchio le comunità, spesso anche per eventi climatici non proprio devastanti.
Gli studi disponibili in questo settore, valutano in circa quattro miliardi di euro il fatturato “iniziale” di un simile piano. Sembra una cifra enorme, ma se per paradosso (e quindi con tutte le variabili del caso) si stanziassero solo 500mila euro per ciascuno dei 7914 Comuni della penisola, quella sarebbe la cifra finale fatturata. Un moltiplicatore per piccole, medie e grandi imprese senza discriminazione di area, regione, Nord, Centro e Sud. Le quali, tutte, potrebbero avvantaggiarsi di linee direttrici – rigorose e con forti vincoli alla responsabilità di risultato – articolate con vantaggi fiscali, incentivi e semplificazioni amministrative che si possono prevedere e pianificare, a monte, con un efficiente piano nazionale che eviti il labirinto di norme e burocrazia incomprensibili.
La gestione, il risanamento e la riqualificazione delle città, con modelli gestionali innovativi, consentirebbero una forte razionalizzazione degli interventi, azzerando di fatto l’elusione tributaria che azzoppa le amministrazioni comunali. A maggior ragione in tempi in cui si propongono improbabili moratorie (vedi il sindaco de Magistris) su tasse e tributi locali. E quanto alla riqualificazione del territorio non-urbano, è evidente a chiunque quanto siano necessari piani di manutenzione di beni culturali, strade, ponti, argini fluviali, linee ferroviarie, reti idriche.
Un piano colossale che è già sulla carta. Basta infatti ripercorrere le cronache recenti, per capire l’attualissima necessità strutturale dell’Italia che voglia coniugare la manutenzione di se stessa, con la produzione di nuova ricchezza. Per comprendere il valore del “Nuovo Patto”, si consideri che nel 2014 (prima della stagnazione complessiva) gli investimenti nelle costruzioni, private e civili, erano arrivati a 170 miliardi di euro, e che lo sviluppo nel campo dei servizi, in genere coinvolge ancora oggi il maggior numero di occupati, pari al 64% del totale, di cui oltre 12 milioni nel solo settore privato. Da notare: quanti di questi posti di lavoro oggi sono a rischio?
Il lavoro da fare è sterminato. Serve però un preciso indirizzo politico, non più dettato da istanze ideologiche, ma da una visione concreta della crisi del sistema-paese da una parte, e dall’opportunità che un simile piano rappresenta dall’altra, offrendosi come strumento di rinascita dell’intero sistema economico, culturale e civile italiano, dopo la paralisi del Covid-19.
Non un cantiere con diecimila addetti, ma diecimila cantieri con dieci, cento, mille addetti ciascuno. Un esempio: per la sola manutenzione ordinaria di una città come Napoli, per impedire cioè che alberi e cornicioni cadenti uccidano le persone, servirebbero 400 milioni a prezzi 2016. Ci sarà in Italia – 91 anni dopo Roosvelt negli Usa – un paladino per il New Deal italiano contro la depressione del 2020?
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