Sin dai tempi della sifilide e ancor di più da quelli delle ricorrenti epidemie di colera, Napoli sa benissimo – e a maggior ragione lo sa oggi – quanto stretto sia il nesso tra la malattia e l’architettura, tra l’emergenza sanitaria e l’urbanistica. C’è stato un tempo – quello di Depretis, per intenderci – in cui anche la sinistra nazionale vedeva negli sventramenti la soluzione ad un degrado urbano non più tollerabile, perché il sovraffollamento abitativo era la norma e in molti quartieri non c’erano confini tra le case e le fogne. Successivamente, però, questa parola – sventramento – ha assunto tutto un altro valore. E ogni intervento sulla città è stato visto con sospetto e avversione. Tutto – e siamo già nella Napoli di Lauro – è stato a questo punto politicizzato e ideologizzato.

Altrove non è stato così. Ho già ricordato altre volte che, negli stessi anni, al Nord, Italo Calvino scriveva La speculazione edilizia, un romanzo ambientato a Rapallo, in cui lo speculatore non era un palazzinaro grasso e volgare, ma un comunista di ritorno dalla Resistenza; e ora aggiungo anche che, a New York, la giornalista Jane Jacobs , direttrice di Architectural Forum, si scagliava con uguale forza sia contro le storture della città, sia contro chi detestava la città in sé, considerandola un vero e proprio male e un oltraggio alla natura. Napoli come caso a parte, insomma.

Il risultato locale lo conosciamo: una sostanziale pietrificazione della città, salvo che nelle periferie, dove invece è successo di tutto; e dove proprio gli anti-laurini di una volta hanno consentito addirittura lo sviluppo di quartieri interamente abusivi. O, se non abusivi, per molti versi invivibili, perché privi di tutti quei servizi che, previsti nei progetti, sono poi “saltati”, nella fase esecutiva. Perché le cose sono andate così? Perché a Napoli mettere le mani sulla città è diventato un delitto a prescindere; a prescindere dal progetto architettonico? Per molte ragioni. Ma a tutte quelle facilmente immaginabili, possiamo ora aggiungerne, con maggiore consapevolezza, anche un’altra, di tipo “glocal”, che viene dall’esperienza di questi mesi: dalla paura del contagio come dal lungo lockdown.

Se, infatti, nei secoli passati, l’architettura e l’urbanistica si trasformarono in discipline sanitarie, poi, grazie ai passi avanti fatti dalla ricerca scientifica, tutto è cambiato. Con l’efficace ricorso ai vaccini e agli antibiotici, è venuta meno la necessità di usare le ruspe contro la polio, la tubercolosi o il colpo di coda di un’epidemia di colera. Così, l’esistenza di una validissima alternativa agli sventramenti ha fatto venire meno, da un lato, le ragioni “buone” degli sventratori e, dall’altro, ha dato invece spazio a quelle “negative” o utopiche o romantiche dei nemici della città in quanto tale. Ma sappiamo tutti che una città su cui nessuno mette le mani è una città destinata al declino. Perciò, se a tutto questo aggiungiamo anni e anni di amministrazione senza un progetto per la manutenzione urbana e senza una visione per il futuro, che non fosse esclusivamente turistico-commerciale, ecco la Napoli di oggi.

Ora, però, di fronte a emergenze come quelle dettate dal Covid-19, e alla certezza che non sarà facile trovare rapidamente i farmaci e i vaccini necessari a fronteggiare le malattie infettive che verranno, la gestione degli spazi torna ad essere una necessità. Il che riconsegna all’urbanistica e all’architettura la perduta centralità. Specialmente in una città come Napoli, dove per anni e anni, sia all’una che all’altra sono stati assegnati ruoli assai marginali, e il più delle volte più estetici che funzionali.