L’ultimo rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, redatto dalla Corte dei conti, rivela che il 56% trasferimenti pubblici (meglio noti come aiuti di Stato) è andato a imprese del Nord. Più precisamente il 22% è andato a imprese lombarde (circa 26 miliardi di euro), l’11% a quelle venete (pari a circa 11,7 miliardi) e il 10% a quelle emiliane (che hanno beneficiato di 10,3 miliardi). Alle imprese del Centro sono stati concessi aiuti per il 21% del totale nazionale; quelle del Sud e delle isole  hanno ricevuto trasferimenti pari al 23%. La maggior parte degli interventi si è concentrata sulle garanzie a sostegno delle esigenze di liquidità delle imprese (97,6 miliardi).

Riguardo ai destinatari, prevalenti sono state le imprese di costruzione (circa 4 miliardi) e di ristorazione (3,2  miliardi). Lo stesso rapporto sottolinea che «nel confronto con la distribuzione territoriale del 2019, l’operatività degli aiuti di Stato nel 2020 accentua il livello di concentrazione delle erogazioni nelle aree settentrionali (nel 2019 queste ultime assorbivano infatti il 48% degli importi concessi). Anche rapportando l’importo erogato al numero di imprese per regione, le imprese del Nord e, in particolare, di Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna risultano destinatarie di aiuti pro capite più elevati».

Gli aiuti di Stato, concessi in deroga ai limiti imposti dai trattati europei, puntano a sostenere le imprese danneggiate dalla pandemia, evitando frazionamenti e condizioni di disparità tra operatori economici. Stando ai dati, questo secondo obiettivo sembra essere stato largamente disatteso. Gli aiuti si sono concentrati nella parte più forte del Paese, ponendo un’ipoteca sulle condizioni della ripartenza che non avverranno in condizioni di parità tra Nord e Sud. Commentando questi dati, non si vuole riproporre la vecchia polemica del Nord privilegiato e del Sud bistrattato che è stata spesso utilizzata come alibi per nascondere le responsabilità delle classi dirigenti meridionali.

Tuttavia non si può tacere che, dalla fine dell’intervento straordinario, il Sud è stato abbandonato: una scelta in gran parte guidata dalla teoria economica contemporanea per la quale l’intervento statale, per essere efficace, deve concentrarsi nelle aree che hanno potenzialità di sviluppo autonomo, altrimenti la spesa pubblica si trasforma in assistenzialismo e favorisce rendite parassitarie. In questa prospettiva le aree depresse del Centro-Nord, essendo inserite in contesti con maggiori potenzialità di sviluppo, sono destinate a ricevere maggiori aiuti e a questo si aggiunge anche una certa capacità della classe dirigente settentrionale a predisporre le condizioni politiche per ricevere quote crescenti di finanziamento pubblico.

Questo approccio di policy non è limitato alla sola attività produttiva, ma anche a quella di formazione. Il decreto 942 firmato a fine 2020 dal ministro dell’Università e stabilisce l’ammontare di detrazioni fiscali (per l’imposta lorda sui redditi) per gli studenti iscritti ad atenei non statali, privilegiando nettamente le università private del Nord (si va dai 3.700 euro di detrazioni agli iscritti a corsi di area medica ai 1.800 previsti al Sud). Lo stesso trattamento è previsto per dottorati, master e scuole di specializzazione: 3.700 euro di detrazioni per gli studenti del Nord rispetto ai 1.800 previsti per gli studenti meridionali. Un intervento di forte sperequazione che danneggia lo stato già precario degli atenei non statali meridionali, disincentivando ulteriormente le iscrizioni. Le detrazioni si traducono, infatti, in un sostegno indiretto correggendo le rette più alte richieste dai più blasonati atenei del Nord.

Insomma un intervento “perequativo” alla rovescia. Le scelte di policy compiute, sia per gli aiuti di Stato che per le detrazioni fiscali, ignorano che il problema del Mezzogiorno è costituito dall’insufficiente dotazione di capitale. Se si concentrano gli interventi nelle arre più sviluppate, la dotazione di capitale del Sud resterà sempre insufficiente per permettere il suo sviluppo. Se poi si colpisce anche il capitale umano, incentivando in tutti i modi la fuga di cervelli, allora il Mezzogiorno rimarrà periferia del mondo sviluppato. Cento anni fa, nel suo Nord e Sud, Francesco Saverio Nitti dimostrò che le scelte di politica fiscale post-unitarie avevano avvantaggiato nettamente il Nord. Oggi la questione si ripropone in termini immutati.