«Gli europei non ci hanno aiutato quanto potevano», aveva detto venerdì scorso il segretario di Stato americano Mike Pompeo, deluso dall’atteggiamento dei paesi Ue rispetto all’attacco a Qasam Soleimani. In effetti, nelle ore successive all’uccisione del generale, i vari leader europei hanno rilasciato dichiarazioni di circostanza, improntate a un imbarazzato disimpegno. «L’Ue invita tutti gli attori e i partner dotati di influenza a esercitare la massima moderazione e responsabilità», ha detto ecumenicamente l’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrell. «Le violenze in Iraq devono cessare», ha genericamente auspicato Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo. D’altra parte, basta osservare lo scacchiere mediorientale per capire che il livello di importanza dell’Europa è quasi pari a zero.

C’è l’Iran che punta all’egemonia con due progetti: la Mezzaluna sciita che mette insieme Iraq, Iran, Siria, Libano (e i terroristi di Hezbollah) e la guerra in Yemen contro l’Arabia Saudita. C’è il leader turco Erdogan che alimenta l’ambizione “neo-ottomana” del suo Paese fino al Nordafrica con gli interventi in Siria e Libia e gli accordi in Qatar. C’è la Russia di Putin che nell’area spalleggia tutto ciò che può dar fastidio agli Usa: aiuta Assad in Siria (proprio con l’aiuto dell’Iran), invia mercenari in Libia e accarezza la strategia degli ayatollah sciiti, contando sull’appoggio del gigante cinese. C’è, infine, l’America di Trump il quale – erede sì del progressivo disimpegno del predecessore Obama, ma interessato a presidiare l’area – rinsalda il patto di ferro con Israele e Arabia Saudita, rafforza le truppe nel Golfo e mantiene le pressioni economiche e militari sull’Iran. L’Europa, invece, non è pervenuta, fatta eccezione per il blando tentativo di sostituirsi al disimpegno statunitense negli anni recenti per frenare la corsa iraniana al nucleare. Proprio in questi giorni Macron e Merkel hanno chiesto ad Ali Khamenei di mantenere gli impegni assunti in passato. Troppo poco: l’Ue ha una voce flebile. Che sparisce totalmente appena emerge il conflitto tra potenze.

Inoltre, sul piano della sicurezza militare, l’Europa soggiace ancora alla buona volontà degli Stati Uniti. Per esempio, si può ricordare che gli attacchi iraniani alle navi petroliere di diverse nazionalità nel Golfo Persico producono i principali effetti materiali soprattutto sull’Europa vista l’autosufficienza energetica americana e la dipendenza dal petrolio dei Paesi europei. Senza dimenticare l’impatto che hanno in Europa i flussi migratori scatenati dai conflitti nelle aree di crisi mediorientali. Ma Trump è un isolazionista e l’iniziativa dei giorni scorsi in Iraq – programma o capriccio che sia – di sicuro non è stata assunta per fare un favore all’Europa. Macron lo sa bene. Tant’è vero che, esattamente due mesi fa, in un’intervista all’Economist stigmatizzò la crisi della Nato “in stato di morte cerebrale”. Non a caso, immediatamente dopo l’eliminazione di Soleimani, il presidente francese ha sentito Putin, probabilmente al fine di creare una barriera Onu all’eventuale iniziativa militare americana nell’area mesopotamica.

Grazie anche alla forza derivante dal seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Francia resta, dopo la Brexit, l’unico stato dell’Ue con un ruolo geopolitico strategico. Ma è circondato da nani. Tutti insieme, nei prossimi mesi, i paesi Ue si confronteranno nella Conferenza sul futuro dell’Europa al fine di ridisegnare il processo di integrazione politica ed economica: una buona occasione per costruire finalmente una politica estera e di difesa comune. Che, vista oggi dal deserto iracheno, pare ancora un miraggio.

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient