Da Buffalo a Caserta, passando per la strage sfiorata a Marechiaro, all’uso smodato della tecnologia: la Call of duty, cioè la chiamata al dovere, è per i genitori. Nella notte tra sabato e domenica a Buffalo, vicino new York, un 18enne è entrato in un supermercato ed ha ucciso 10 persone. Il tutto facendo una diretta live sui social nel mentre eseguiva la strage. Quello che mi colpisce macroscopicamente di questo fatto è la “modalità di esecuzione”.

Un giovanissimo che utilizza un’arma d’assalto per mettere in atto una vera e propria “azione di guerra” considerato anche l’equipaggiamento: una tuta mimetica, un giubbotto anti-proiettili, un fucile semiautomatico ed un copricapo dotato di webcam attraverso cui ha trasmesso l’esecuzione “in diretta”. Starete immediatamente pensando che la strage si riferisce ad un contesto sociale molto lontano e diverso dal nostro, dove la facile disponibilità di armi da fuoco giustifica tutto. Ritengo questo argomento un modo facile e scontato per chiudere sbrigativamente una vicenda che la nostra coscienza si rifiuta di attraversare. Spesso ci auto-confezioniamo alibi per difenderci e per sentirci al sicuro ritenendo quella cosa molto lontana da noi. Il rischio è di diventare poco empatici verso chi ha trovato una morte insensata, sorpreso nell’attimo in cui stava mettendo una bottiglia di latte nel carrello.

Sulla facile disponibilità di armi da fuoco nella società americana si potrebbe discutere e sul motivo per il quale nessun presidente degli Stati Uniti, negli ultimi cinquant’anni, sia mai stato in grado di opporsi ma, su tale argomento, non vi avventuro. D’altra parte, anche nel 2019 in Nuova Zelanda ci fu una strage: 49 morti, dentro e fuori una moschea, anche quella integralmente ripresa in diretta online, tramite una bodycam. Quello piuttosto su cui vorrei soffermarmi, e che mi ha invece profondamente colpito, è il “punto di vista” dello sparatore che, per come ha posizionato la bodycam, mi ha ricordato in maniera inquietante le inquadrature di quei videogames, denominati FPS (First Person Shooter) ovvero “sparatutto in prima persona”. Bisognerebbe, a mio avviso, spostare la riflessione sul rapporto cognitivo-comportamentale che agisce su ragazzi, già di per sé fragili, che in determinate fasi del loro sviluppo neuronale e della loro immaturità cognitiva sono esposti, per molte ore al giorno, al condizionamento di certe immagini che necessariamente costituiscono un impianto emulativo.

Questi giochi, a cui giocano anche i nostri figli come il popolarissimo Call of duty, riproducono in maniera fedelissima azioni di guerra prese dal reale, oggi diventate tristemente iper-reali, in cui il virtuale si riproduce anche nella quiete apparente di un supermercato di provincia. Payton Gendron, così si chiama il 18enne, era già in passato finito nel mirino delle autorità segnalato dal suo Liceo come un “ragazzo problematico che diceva di voler fare una sparatoria”. I segnali da parte di ragazzi difficili, i cui stili relazionali manifestano un disagio forte, ci devono obbligare a una prevenzione educativa seria a tutte le latitudini; il tempo che i nostri figli trascorrono “in cameretta a giocare” non deve essere trascurato, né tollerato distrattamente, soprattutto da noi genitori.

Gestire con equilibrio il rapporto con dei ragazzi con le tecnologie è cosa complicatissima; è solo di qualche giorno fa la notizia che un padre, dopo aver sottratto cellullare e PC al figlio 15enne, questo si spara alla testa. È successo in provincia di Caserta, qui. Il rapporto immersivo, deformante, distorcente il piano di relazione con la realtà che i giovani hanno con le tecnologie non deve essere sottovalutato. Io credo che la Call of duty sia soprattutto la nostra: quella di vigilare, osservare, limitare la qualità e la quantità di tempo che i nostri giovani spendono o forse dissipano in innocue attività da noi considerate tollerabili.