Che in Italia vi sia un abuso della carcerazione preventiva è fatto noto e largamente condiviso. Sorprende, perciò, che il quesito referendario più osteggiato sia proprio quello volto a ridurre gli abusi. Contro di esso si sono pronunciati anche coloro che, pur non avendo fatto parte delle forze politiche promotrici dei quesiti referendari, non hanno comunque assunto una posizione di totale ostilità. Si pensi a Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia o a quella parte del Partito Democratico, che ha assunto una posizione dialettica rispetto all’indicazione contraria a tutti i quesiti data dal segretario, Enrico Letta.

Anche Enrico Morando, nell’intervista rilasciata il 17 maggio a questo giornale, pur riconoscendo la necessità di una regolamentazione della custodia cautelare che contrasti gli abusi, si esprime contro il quesito ritenendo che la possibilità di reiterazione di un reato giustifichi comunque la misura cautelare. In realtà, per comprenderne la effettiva portata, il quesito va letto alla luce della concreta esperienza del rapporto tra legislatore e magistratura, che su questo tema si è sviluppato negli anni successivi a Mani Pulite. Il legislatore è più volte intervenuto per contrastare l’abuso delle misure cautelari, attraverso l’introduzione di norme volte a circoscrivere con termini più pregnanti le condizioni per l’adozione di tali misure. E la magistratura, avendo il monopolio della relativa interpretazione, ha, molto spesso, nella applicazione pratica, depotenziato se non addirittura annullato la portata innovativa delle modifiche volute dal legislatore.

In questo senso, il quesito considerato, per alcuni aspetti, è addirittura il più emblematico di quello che è lo spirito di fondo dei referendum sulla giustizia: una richiesta al popolo di esprimere la propria volontà in ordine ad un riequilibrio dei rapporti tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato. Come noto, le regole fondamentali in materia di misure cautelari personali sono fissate negli artt. 273 e 274 del codice di procedura penale. Il primo richiede la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, mentre il secondo individua le ipotesi, in cui lasciare in libertà colui sul quale gravano gravi indizi costituisca un pericolo. Tali ipotesi sono: il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga ed il pericolo di commissione di ulteriori reati. A quest’ultima ipotesi si riferisce, appunto, il quesito referendario. Ed occorre, subito, fare una precisazione.

La norma prevede quattro diversi casi di pericolo di reiterazione: gravi delitti con l’uso di armi o altri mezzi di violenza, delitti contro l’ordine costituzionale, delitti di criminalità organizzata, altri delitti della stessa specie di quello per cui si procede. Il quesito referendario riguarda solo quest’ultima ipotesi. Non ha, dunque, alcuna attinenza con la realtà la posizione di chi lamenta che, se esso fosse accolto, resterebbero in libertà coloro che appaiono capaci di commettere ulteriori atti di violenza o di terrorismo o addirittura gli aderenti ad organizzazioni mafiose. Si tratta, molto semplicemente, di ipotesi estranee al quesito referendario. Il quale concerne, per fare degli esempi, l’imprenditore accusato di aver utilizzato una fattura falsa per evadere le imposte, l’amministratore pubblico accusato di aver favorito qualcuno in una gara di appalto, il pubblico dipendente accusato di essersi fatto corrompere etc. Come appare evidente, ove si faccia un minimo di riflessione, la possibilità di ritenere che chi sia accusato di tali reati possa commetterne di nuovi è del tutto aleatoria ed affidata ad una valutazione soggettiva, guidata da una totale discrezionalità.

Per cercare di limitare gli inevitabili abusi suscettibili di verificarsi in una valutazione del genere, il legislatore è intervenuto nel 1995 e, da ultimo, nel 2017, stabilendo che la misura cautelare, nella ipotesi considerata, possa essere adottata solo in presenza di una situazione di pericolo concreto ed attuale di reiterazione del reato. Senonché, nonostante la chiara volontà espressa dal legislatore, la giurisprudenza ha continuato ad affermare che la misura cautelare è giustificata ove si sia in presenza di una valutazione prognostica fondata sulla personalità del soggetto, sulle modalità del fatto e sul contesto socio-economico nel quale lo stesso si colloca. Questo anche se non vi siano elementi idonei a ritenere l’imminenza della reiterazione, in quanto il requisito della attualità del pericolo può sussistere pure quando l’indagato non disponga di effettive ed immediate opportunità di ricaduta. Di conseguenza, molto spesso, nella pratica, non è ritenuta sufficiente per evitare la misura cautelare la circostanza che l’indagato abbia abbandonato la carica, che gli avrebbe consentito la commissione del reato di cui è accusato e che gli consentirebbe di reiterarlo.

La giurisprudenza, dunque, ha finito, di fatto, con lo svuotare di qualsiasi significato i limiti che il legislatore ha cercato di porre al potere assoluto ed arbitrario di privare della libertà chi sia accusato della commissione di determinati reati, anche se non ancora ritenuto colpevole con sentenza passata in giudicato. Attraverso il richiamo al pericolo della possibilità che siano commessi ulteriori reati da parte di chi sia oggetto di indagine, la magistratura finisce con il rendere il valore della libertà personale del tutto evanescente, in quanto totalmente sottoposto al proprio potere arbitrario. Qualche frase stereotipata in più, nella motivazione dei provvedimenti cautelari, e la libertà dei cittadini è sistemata.

Se si hanno presenti questi aspetti, si comprende agevolmente che il quesito in questione appare essere, dopo quello sulla responsabilità dei magistrati dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale, quello che maggiormente esprime il senso e l’obiettivo di questa tornata referendaria. Opporsi ad esso significa anche avallare una visione autoritaria dello Stato, che tollera che la libertà dei cittadini sia materia affidata ad un potere arbitrario.