Alle 16 e 30 Matteo Salvini lascia palazzo Ferrajoli dove ha parlato per tre quarti d’ora a un convegno su Italia ed Europa stando bene attento a non usare argomenti incendiari. Ha difeso il doc e il dop italiano, e questo non è certo sovranismo ma difesa del nostro prodotto interno lordo. Quello che conta non sono le forme di grana padano e i vassoi di affettati annaffiati da prosecco del buffet – tutto rigorosamente italiano – ma il foglio con i nomi dei trenta segretari di partito che siedono in Parlamento e che sbuca dalla cartellina che tiene stretta tra le mani. «Non ci volevo credere neppure io – riflette a voce alta – pensavo di doverne contattare una decina al massimo, trenta proprio non immaginavo però tanti sono».

A quell’ora del pomeriggio i contattati erano già otto. «Con qualcuno ho parlato, ad altri ho mandato il messaggio. Farò a tutti la stessa proposta: vediamoci, parliamoci e decidiamo. In territorio neutro, ovviamente…». In qualche sala della Camera o del Senato. Meglio la prima del secondo che da qui a Natale sarà nel tourbillon della legge di bilancio. «Non tutti diranno sì, già lo so. Però è necessario prendere l’iniziativa adesso. Lo spirito della mia iniziativa è proprio questo: lavorare per unire, avvicinare e non dividere. Trovare una sintesi che metta d’accordo tutti o quasi tutti sul presidente della Repubblica che dovrebbe garantire tutti». Nella lista ci sono tutti oltre le forze della larga maggioranza, Sinistra Italiana, Alternativa c’è e tutte le componenti nate in questi tre anni e mezzo di legislatura che hanno ingrossato i gruppi Misti fino a 111 parlamentari. Una mossa realista, quella di Salvini (“e di Renzi” suggerisce qualcuno) perché quei 111 voti possono veramente fare la differenza in un Parlamento balcanizzato e fuori controllo degli stessi big. Salvini, Meloni, Letta e Conte compresi. Così ieri, nella prima giornata da facilitatore della partita del Colle, Salvini poteva a sera già contare contatti e colloqui preliminari con Letta, Conte, Renzi, la stessa Meloni, Giovanni Toti (l’unico con cui si è incontrato di persona), Silvio Berlusconi, Maurizio Lupi. Non c’è ancora un calendario di date. «Aspettiamo domani la capigruppo al Senato per capire la tempistica della legge di bilancio» ha detto Salvini, «poi spero che riusciremo a vederci in presenza».

Sono almeno tre gli obiettivi del leader della Lega: ritrovare una centralità nella partita del Colle dopo una settimana in cui Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, è stato il crocevia di ipotesi, protagonisti e movimenti; sottrarre a chiunque la golden share di un’elezione dove tutti contano e nessuno può fare a meno dell’altro (messaggio questo soprattutto per il Pd e il centrosinistra); cercare una regia collettiva ma seria a uno dei passaggi più importanti della vita repubblicana; cercare di mettere a nudo per tempo, evitando anche figuracce, eventuali doppi e tripli giochi. Anche nel centrodestra dove Silvio Berlusconi è indicato da tutti, “ma siamo poi sicuri che tutto il centrodestra lo vota?”. Diciamolo subito: risulta difficile che il nome del Cavaliere possa uscire Capo dello Stato da un simile tavolo di compensazione. La scorsa settimana Giorgia Meloni ha organizzato la “camera di compensazione con vista sul Quirinale” (i sette giorni della festa di Atreju) e si è nei fatti proposta come “queen maker” delle urne quirinalizie. Un’ottima regia per un format molto curato, quasi televisivo, dove sono stati ospiti quasi tutti i leader di maggioranza (mancava Leu) e vari ministri (Di Maio, Cingolani, Cartabia), dove il lessico (ha trionfato la parola “conservatori”) e la lista degli ospiti ha cercato di far immaginare un’evoluzione di Fratelli d’Italia verso una destra moderna e europeista lontana da luoghi comuni beceri, nazionalisti e identitari.

L’ultimo giorno ci ha pensato la stessa Meloni a rimettere le cose a posto con quel crescendo di attacchi contro Letta e Draghi, il primo definito “il Casalino di Macron” e il secondo a capo di un ufficio, palazzo Chigi, che è “l’ufficio stampa dell’Eliseo”. Quando ha espresso “solidarietà alla Polonia perché “aggredita dalla Ue”. Quando ha rivendicato la posizione “free vax”, un modo come un altro di strizzare l’occhio a quell’area. E quando ha rilanciato il “presidenzialismo” (Fdi ha presentato un ddl costituzionale) “per uscire dal pantano della Repubblica parlamentare”. Aveva illuso Meloni. Salvo poi “cadere” nell’ultimo miglio, il discorso finale, nei più classici clichè della retorica sovranista e identitaria: «Il presidente della Repubblica deve essere un patriota. Berlusconi lo è. Draghi ancora non lo so». Ieri Enrico Letta gli ha risposto con un tweet: la foto di Pertini e l’hashtag #patriota.

Così ieri Matteo Salvini si è messo a fare il centralinista non in quanto “padrone di casa” del centrodestra ma nel ruolo dichiarato di facilitatore moderato (da settimane ormai il segretario leghista ha lasciato la linea del barricadero populista e tratta per lo più temi economici: ieri ad esempio ha presentato ordini del giorno sul nucleare pulito per risolvere il tema antico della mancanza di fonti energetiche) di un accordo che deve per forza in qualche modo essere trovato tra tutte le forze e non solo di maggioranza. Meloni compresa. Accordo che al momento non solo non è all’orizzonte ma è da mesi il protagonista di un gioco politico anche un po’ stucchevole visto che ci sarebbero ben altre emergenze economiche e sociali da affrontare.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.