Sul Corriere del 15 luglio scorso è apparso un articolo del Dott. Giancarlo Caselli dal titolo “Carriere separate, le ragioni di un no”.
L’ex pubblico ministero sostiene che il dibattito sulla separazione delle carriere si inserisce in una strategia per mortificare la magistratura e sterilizzare, se non impedire, l’esercizio indipendente della giurisdizione, nascondendo così un tentativo di “limare le unghie della magistratura”. Prescindendo dal fatto che la magistratura non dovrebbe, mai, né affilare, né mostrare le unghie, tali considerazioni costituiscono una accusa strumentale, quanto infondata, abbandonata ormai anche dai più strenui oppositori della riforma ordinamentale, e tradiscono l’intendimento di non affrontare laicamente il merito di una questione importante non per magistrati o avvocati, ma per la giustizia e l’intera comunità.

Le obiezioni mosse dal Dott. Caselli alla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane, attualmente in discussione in Parlamento, sono sostanzialmente due, anch’esse note quanto superate. La prima consiste nell’affermare che il Pubblico ministero finirebbe, inevitabilmente, sotto il potere esecutivo e ne sarebbe condizionato; la seconda nella circostanza che i magistrati inquirenti, separati dai Giudici, verrebbero a godere di un inedito ed esagerato potere. In merito al primo rischio ipotizzato, basterebbe leggere la proposta in esame in Parlamento per sfatare quella che ormai può considerarsi una leggenda metropolitana e rendersi conto che il Pubblico ministero conserverebbe la propria autonomia e indipendenza, rimanendo saldamente inserito nell’ordine giudiziario, a sua volta autonomo e indipendente dal potere politico.

Per quanto alla paventata possibilità di un eccessivo quanto incontrollato potere dei Pubblici ministeri, capace di competere e condizionare il potere politico, determinando, con un semplice avviso di garanzia, dimissioni di ministri o cadute di governi, in grado di impedire la promulgazione di leggi invise e di occupare spazi strategici all’interno dei ministeri o dell’amministrazione, o di sfruttare il consenso ottenuto con le proprie indagini per entrare in politica, non è già ciò che avviene ed è sotto gli occhi di tutti? Le recenti vicende che hanno riguardato la magistratura hanno dimostrato ancora una volta come, non a caso, i posti più ambiti fossero i vertici delle Procure più importanti e le ragioni sono intuibili. Iscrivere o non iscrivere una notizia di reato, ritardarne l’iscrizione per questo o quel diverso titolo di reato, conferisce un potere di condizionamento che non poteva sfuggire alla politica, il tutto con evidenti ricadute anche sulla separazione dei poteri, minata, altresì, dalla commistione tra politica e magistratura che si realizza attraverso i magistrati fuori ruolo, chiamati a svolgere funzione con valenza politica o amministrativa.

Altro che rischi connessi alla riforma in discussione che, invece, contiene una serie di norme che, con la riforma del Csm e la modifica della obbligatorietà dell’azione penale, costituiscono un antidoto alle degenerazioni del sistema, evitando, tra l’altro, che i Giudici debbano dipendere nel disciplinare, o per le promozioni, dalle valutazioni dei Pubblici ministeri, come oggi avviene. Non solo. Chiedere l’effettiva applicazione dell’art. 111 della Costituzione che prevede un Giudice imparziale e terzo, proprio per garantire la parità delle parti, serve ad eliminare una anomalia tutta italiana, tenuto conto che i Paesi che hanno adottato il sistema accusatorio hanno attuato la separazione delle carriere. Il potenziamento del ruolo del Giudice consentirebbe di eliminare lo squilibrio tra inquirenti e giudicanti, perché il “controllato” (il Pm) ha preso il sopravvento sul “controllore” (il Giudice), tanto che le indagini, e non solo nell’immaginario, hanno assunto un peso e un’importanza maggiore persino delle sentenze, pregiudicando, tra l’altro, il principio costituzionale della presunzione di innocenza.

Rafforzare il Giudice, quale garante dei diritti, conservando l’autonomia e l’indipendenza del Pm, non può essere considerato punitivo per la magistratura. La riforma, al contrario, accrescerebbe il prestigio della giurisdizione conferendole nuova e compiuta legittimazione. Un Giudice distinto da chi accusa e chi difende sarebbe anche percepito come effettivamente terzo e le sue decisioni acquisterebbero maggiore autorevolezza e sarebbero accettate, proprio perché la terzietà assicura e certifica la imparzialità della decisione. Molti magistrati, contrariamente a quello che si ritiene, non sono avversi a tale riforma, tra questi, ci piace ricordare, Giovanni Falcone, giustamente evocato quando si parla di lotta alla mafia, ma trascurato, se non censurato, quando l’argomento riguarda la separazione delle carriere.

Questo diceva il Giudice Falcone: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e delle stesse carriere dei magistrati dal Pm non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il Pm, arbitro della controversia il Giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del Pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti, rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura» (Fondazione Giovanni Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte 1982 / 1992).

Gian Domenico Caiazza, Beniamino Migliucci

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