Fate presto! Le carceri italiane bruciano e continueranno a bruciare se il governo e la magistratura non daranno un segnale immediato che spenga un fuoco che non si chiama solo Coronavirus, ma che viene da lontano. Viene da luoghi dove 60.439 persone sono stipate al posto di 50.511. Luoghi dove il metro di distanza l’uno dall’altro, regola che tutti noi dobbiamo osservare per evitare il contagio, è letteralmente impossibile, ed è già un miracolo che gli istituti di pena non si siano ancora trasformati in enormi lazzaretti.  Ma non sono soltanto i problemi sanitari ad aver acceso i fuochi, ad aver portato gli animi all’esasperazione fino a provocare incendi di materassi, distruzione di intere celle, fino ai sei morti di Modena e l’evasione di massa dal carcere di Foggia. Il vero problema sono i diritti. Il problema è «l’esigua tenda azzurra che i carcerati chiamano cielo» (Oscar Wilde, La ballata dal carcere di Reading). E il “cielo” è il rapporto tra chi sta rinchiuso e chi è fuori e vorrebbe continuare a tendere la mano.

A determinate condizioni, l’infezione da Coronavirus non dovrebbe spaventare il popolo delle carceri. Le comunità chiuse, e la prigione in primis, sono infatti maggiormente tutelate dal pericolo del contagio. Purché siano però limitati i rapporti con l’esterno, purché non ci siano persone che entrando e uscendo, non rischino proprio di andare a infettare i reclusi. Sono molti i soggetti che quotidianamente varcano cancelli e portoni delle prigioni: nuovi detenuti, operatori giudiziari, personale amministrativo, volontari, parenti dei detenuti per i colloqui settimanali. È la famosa “socialità” introdotta da due importanti riforme, quella del 1975 e la Gozzini del 1986, che hanno avuto la forza di spezzare un po’ quelle catene che rendevano la detenzione un solo profondo buco nero in cui precipitare senza vedere nessuna luce in fondo alla propria vita.

Ma se togli al carcerato i colloqui con i parenti, se rinchiudi coloro che avevano il permesso di lavoro esterno o vivevano ormai in regime di semilibertà, la protesta può essere dietro l’angolo. Proprio per questo avevamo, una settimana fa, intervistato il direttore del carcere di Opera, la grande prigione alle porte di Milano con 1300 detenuti e anche un reparto speciale per chi è stato condannato per i reati più gravi. Il dottor Di Gregorio ci aveva spiegato di aver lavorato sulla prevenzione, e di aver trovato grande collaborazione sia da parte dei detenuti che dei loro familiari, quando il decreto governativo del 3 marzo aveva sospeso per qualche settimana i colloqui. All’interno dell’istituto però non era cessata nessuna forma di socialità, ci aveva spiegato, ed erano state moltiplicate in numero e durata le telefonate con le famiglie. Pur disponendo il carcere di pochi strumenti elettronici, erano stati messi a disposizione dei detenuti a turno per qualche incontro-video con i parenti tramite Skype e qualche uso di cellulare. Piccole cose, e non è detto che saranno sufficienti.

Evidentemente non ovunque e non sempre queste alternative infatti sono state accettate. Soprattutto nelle case circondariali come San Vittore, dove la presenza di tanti detenuti in attesa di giudizio, rende la situazione meno governabile, nonostante la presenza di personale molto qualificato. Difficile rinunciare ai propri diritti, quando se ne hanno già pochi. Da anni il Partito radicale e associazioni come Antigone, oltre ai Garanti territoriali dei diritti dei detenuti, lanciano l’allarme. È vero che fino a pochi giorni fa era lontano il ricordo delle rivolte carcerarie degli anni Settanta, a partire dalle due più famose del 1969 alle Nuove di Torino e San Vittore di Milano. Ma è altrettanto vero che ripetute sono state le condanne all’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, tra l’altro proprio anche per la ristrettezza degli spazi nelle celle

. Niente riforme (che fine ha fatto quella del ministro Orlando, modesta ma comunque utile?) e continui tagli ai bilanci e al personale hanno sicuramente contribuito a far covare qualche scintilla sotto la cenere. Se a questo si aggiungono un bel po’ di controriforme che hanno riempito le carceri anche di persone che dovrebbero stare altrove (come i malati psichici e i tossicodipendenti, oltre agli anziani), fino a renderne l’aria irrespirabile per la ressa, si capisce subito perché diciamo: “Fate presto!”.

L’amnistia e l’indulto, che oggi vengono richiesti, oltre che dai radicali, anche dalla giunta delle Camere penali e che Il Riformista ha proposto da tempo, possono essere messi in calendario anche da subito, anche se necessitano poi di tempi lunghi. Ma ci sono provvedimenti che possono essere adottati immediatamente. Prima di tutto applicare misure alternative a tutti coloro che stanno scontando gli ultimi due anni o che devono ancora scontarli in esecuzione pena. Poi mandare a casa gli anziani e i malati. Poi usare di più le misure alternative, soprattutto per la custodia cautelare. Insomma, cominciamo a sfollare, cominciamo a far uscire da cancelli e portoni quei diecimila che sono oltre la capienza naturale. E allora non ci sarà più la tentazione di incendiare, di sfasciare e di scappare. Ma facciamo presto, la casa brucia. Fate presto!

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.