I rapporti tra il nostro Paese e la Libia, pur non essendo vecchissimi (sono nati nel 1911), sono molto ricchi di vicende “multicolore”, tra cui anche e soprattutto il “rosso”. Merita attenzione l’ “era gheddafiana” (1969-2011) e in particolare le vicende che nascono nel 1980 e che si trascinano addirittura fino ai nostri giorni. Al processo in Corte d’Assise a Roma ai quattro generali dell’Aeronautica militare sul “Caso Ustica”, il ministro della Difesa dell’epoca, Lelio Lagorio, il 6 dicembre 2001 (vds Italia-Libia stranamore di V. R. Manca, ed. Koiné 1911) dichiarò: «… Il colonnello Gheddafi in quel tempo attraversava un periodo particolarmente effervescente, faceva discorsi minacciosi in tutte le direzioni… L’Italia non aveva interesse a un aumento di questa tensione, anche perché migliaia di lavoratori italiani e notevoli imprese italiane lavoravano in Libia… Non volevano stuzzicare troppo la suscettibilità del leader libico».

Ad un’altra domanda della Corte rispose: «… La gestione di tutte le vicende fu del Ministero affari esteri, trattandosi di relazioni con la Libia. Gli Esteri, forse più della Difesa, erano sensibili al fatto di non inasprire i rapporti…». Per poi affermare il 6 luglio 1989 (audizione in Commissione parlamentare sulle “Stragi”): «Per Ustica non ho allertato i servizi d’informazione ed ora vi spiegherò il perché». Lagorio, che non aveva avuto alcuna riserva verso i vertici militari dell’epoca, precisò: «Diverso era il mio stato d’animo nei confronti dei servizi di sicurezza perché la loro storia nel regime repubblicano non era stata edificante… erano deboli, male organizzati… ripetutamente devastati dagli scandali …». Nelle motivazioni della sentenza si leggerà: «D’altra parte il commento storico, caratterizzato dalle tensioni ma anche da legami economici tra Italia e Libia, favoriva coperture e omertà (vds le dichiarazioni al dibattito dell’ambasciatore Quaroni. Inoltre: «In questa situazione non è pertanto possibile valutare le interferenze, il quadro di inquinamenti, i probabili depistaggi operati da alcuni degli appartenenti ai Servizi Segreti dell’epoca…».

Riprendiamo allora dalla crisi politico-militare che all’epoca coinvolse l’Italia, la Libia e Malta. Quest’ultima, nel dicembre 1979, decise di notificare a Tripoli l’intenzione di compiere ricerche petrolifere all’interno delle proprie acque territoriali sui “Banchi di Medina”: zona di mare rivendicata però anche dalla Libia. Per tale motivo tra i due Paesi nacque una controversia finita davanti alla Corte di Giustizia dell’Aia. Nel frattempo gli stessi assunsero l’impegno che non avrebbero eseguito le ricerche oggetto della disputa. La Libia non lo rispettò e Malta fu costretta a cercare l’aiuto dell’Italia, anche se quest’ultima non aveva alcun interesse a creare attriti con Gheddafi. Ciò nonostante, Roma decise di venire incontro a La Valletta, acconsentendo alla nascita di un trattato di assistenza politico-militare con l’entrata in scena dell’onorevole Giuseppe Zamberletti (indimenticato Padre della Protezione civile). All’epoca era sottosegretario al Ministero affari esteri, con funzioni di ministro causa la malattia del titolare Franco Maria Malfatti. La firma per l’accordo italo-maltese era prevista per il 2 agosto 1980. La delegazione italiana venne accolta a La Valletta da funzionari maltesi e poco dopo dal primo ministro Don Mintoff.

Trascorsi pochi minuti, il colloquio si interruppe per l’annuncio telefonico dello scoppio di un’esplosione di una bomba avvenuta alla stazione ferroviaria di Bologna con decine di morti e centinaia di feriti. Zamberletti uscì dallo studio di Don Mintoff sorpreso e affranto dalla notizia. Ma, proprio mentre il rappresentante del governo italiano si china sulle carte per siglarle, si sente alle sue spalle una parola che, fino ad allora, nessuno aveva pronunciato: “Che coincidenza!”. «Mi congedo da Mintoff – annotò Zamberletti -. Dovrei essere soddisfatto. Si è ormai conclusa un’operazione in cui ho creduto e per la quale mi sono battuto con energia. Ma non ci riesco. Non solo perché la notizia della strage in Italia mi ha sconvolto, ma anche perché, in quella sala illuminata da ampie vetrate, è passata un’ombra sottile, colta al volo, da quella parola pronunciata non ricordo da chi: «coincidenza». È passata, credo, davanti gli occhi di tutti, l’ombra del “sospetto”». Al rientro in Italia, i suoi pensieri si soffermarono sui suggerimenti ricevuti nei mesi precedenti dal generale Santovito, ritenuto da Zamberletti e da altri filoarabo. «Quelli – pensò il sottosegretario – avevano forse un altro sapore, un senso che non avevo saputo cogliere».

Il generale, Capo dei Servizi Segreti militari, riferendosi alla storia di Malta, gli aveva detto: «Ma lei ha proprio deciso di grattare la schiena della tigre? Abbiamo irritato Gheddafi pochi mesi fa con la nostra decisione di piazzare i missili di Comiso in Sicilia». Aggiunse poi: «La risoluzione del Governo italiano di schierare i missili nucleari di teatro proprio di fronte al Nord-Africa non è stata letta da Tripoli solo come una decisione della Nato per riequilibrare il rapporto Est-Ovest nel campo della difesa nucleare, ma anche come minaccia in direzione della Libia. Ora con l’accordo che si profila con La Valletta, ci proponiamo di buttare fuori i libici da Malta. Non le pare un po’ troppo?». Ed ancora: «Questa partita sta accrescendo i sospetti del Colonnello Gheddafi nei nostri confronti. Ci creerà problemi… Come vedrà che si faranno vivi anche con lei». «E si erano fatti vivi», scrisse Zamberletti, ricordando che, ai primi di giugno del 1980 (il 27 giugno si verificò l’esplosione in volo del DC9 Itavia), l’Ambasciata libica di Roma gli aveva chiesto di ricevere, con la massima urgenza, una delegazione della Giamahiria (appellativo con cui Gheddafi ribattezzò lo Stato libico dopo il suo insediamento) per importanti comunicazioni.

La delegazione era numerosa. Sembrava più un comitato sindacale che una delegazione diplomatica. La richiesta era semplice e chiara. Chiedevano “formalmente” al governo italiano di non concludere il bilaterale accordo con la Repubblica di Malta. «Dopo il congedo – ricordò Zamberletti -, mentre si allontanavano per i marmorei corridoi della Farnesina, vestiti come erano con blusotti e magliette colorate, mi veniva da pensare a moderni bravi manzoniani, “Questo matrimonio non s’ha da fare!”». E se il sottosegretario fu assalito da un manzoniano pensiero, come dimenticare la frase, altrettanto preoccupante, pronunciata dal capo dell’Intelligence militare: «… Le dico che quasi certamente succederanno guai!». Nasce e si consolida il sospetto della “minaccia” (Ustica) e della “vendetta” (Strage di Bologna). La sera del 22 giugno del 1993, Vincenzo Parisi, già Capo della Polizia e già direttore del Sisde (Servizio Informazione Sicurezza Democratica), venne audito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle “Stragi”. Zamberletti, ora senatore, è uno dei commissari. Gli rivolge due domande. «Cosa pensa di un possibile collegamento con l’attentato del 27 giugno del 1980 al DC9 Itavia proveniente da Bologna e la strage del 2 agosto dello stesso anno, poco più di un mese dopo?».

Parisi risponde: «Riguardo all’ultima domanda di Zamberletti «se esiste un collegamento», in audizione in questa stessa sede e in un’altra audizione da parte del giudice Priore, assistito dal pubblico ministero Salvi, da un punto di vista qualitativo non avevo escluso la possibilità che l’episodio dell’abbattimento dell’aereo di Ustica potesse rappresentare un segnale non percepito. Quando i messaggi non sono percepiti vengono replicati e reiterati finché non si capisce. Quindi potrebbe essersi trattato, il 2 agosto, purtroppo, di una tragica replica stragistica». A tal proposito, Zamberletti osservò: «… Ma se Ustica era stato un tragico “segnale”, ciò poteva significare che il DC9 dell’Italia era stato abbattuto da una bomba». «La lettura degli eventi illustrata da Parisi si concilia solo con l’ipotesi di due attentati realizzati forse dalla stessa mano e comunque provocati dallo stesso mandante. La stessa mano spiegherebbe la stessa città: Bologna, dove probabilmente il mandante aveva la disponibilità di una unità operativa», concluse.

L’ipotesi del collegamento tra le due stragi rimarrà per sempre il “credo” di Zamberletti, accompagnato da una forte amarezza per comportamenti inspiegabili nell’ambito politico. A pag. 177 del libro La luna sulle ali (di G. Spartà e L. Alessandrini, Ed. Macchione, 2021) il delegato alla firma del trattato con Malta espone la sintesi del suo pensiero: «Questa è la storia di un sospetto che mi perseguita da un tragico mattino d’agosto. Ce n’era abbastanza per individuare la pista di un collegamento tra l’aereo caduto a Ustica e la bomba alla stazione di Bologna. E non vedo perché un’ipotesi del genere sia stata accantonata a priori. Non vedo altro motivo che il “pretesto” della “Ragion di Stato …». Zamberletti, morto il 26 gennaio del 2019, ha lasciato una grande eredità. Sempre nel libro La luna sulle ali si legge: “Sul letto di morte dell’ospedale di Varese, Zamberletti ebbe modo di rivedere, per l’ultima volta, collaboratori di ieri e di oggi.

È, tra le autorità, il Capo della Polizia Franco Gabrielli, già prefetto de L’Aquila e Capo Dipartimento della Protezione Civile. A tutti ricordava Ustica con un filo di voce «Tenete viva la fiammella. È andata come dicevo io e la verità salterà fuori. In privato il giudice Priore non mi dava torto». Noi la terremo viva, confortati anche dal fatto che la Cassazione ha dichiarato, al di là di ogni più ragionevole dubbio, che la battaglia aerea e la “presenza” di un missile sul cielo di Ustica sono solo frutto di fantascienza…!