Qualcosa accomuna il processo che ha condotto alla sentenza contro l’ex sindaco di Riace e quello che pretendeva di condannare i responsabili della cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Il fatto che i due processi abbiano avuto esiti opposti non ne revoca l’origine comune: che è l’istanza di riordino sociale per cui si caratterizza certo modo di intendere l’amministrazione della giustizia. La miglior prova che la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia abbia definito un processo che, come molti altri, non doveva nemmeno cominciare, viene da quelli che la commentano con formale rispetto e sostanziale riprovazione, alludendo al pericolo che quella decisione si ponga come un segno di cedimento al potere mafioso. Giusto come i laudatori dell’ultradecennale sanzione a carico di Lucano si compiacciono del risultato a riaffermazione dei loro vagheggiamenti sicuritari.

La “lotta alle mafie”, secondo quel criterio, è il dovere missionario che si compie innanzitutto per il tramite dell’azione penale; e fatalmente, in questo quadro di giustizia impropria, l’esito assolutorio denuncia una pecca: ma non già quella dell’accusa pubblica che ha sbagliato a imputare responsabilità inesistenti, bensì quella dello Stato che, per insipienza o complicità, non ha adempiuto in modo rotondo al proprio dovere antimafioso. Non diversamente, la fruttuosa incolpazione di quell’ex funzionario municipale sigilla in modo esemplare la funzione tutoria della giustizia, laddove una pronuncia di segno opposto avrebbe dimostrato l’inettitudine dello Stato a tenere in conto l’interesse nazionale secondo il protocollo “prima gli italiani”. A sostegno di questa stortura non c’è soltanto l’impostazione da trivio civile secondo cui, da un lato, un’altra volta i manigoldi l’hanno fatta franca (trattativa Stato-Mafia), mentre dall’altro (Lucano) finalmente la giustizia si è decisa a far rispettare i sacri confini della patria.

C’è anche, perfino più temibile, quella per cui la sentenza che assolve era magari dovuta in ottica cavillosa, ma imperdonabilmente lascia irrisolta l’urgenza sociale delle mafie: appunto, come se risolverla fosse compito del processo penale. Ed è la stessa impostazione che addebita all’assoluzione di lasciare a languire la pretesa di giustizia delle vittime: una pretesa, par di capire, che è soddisfatta nel primo grado che condanna ingiustamente ed è insultata nell’istanza successiva che pone rimedio all’ingiustizia fatta prima. E, sul fronte opposto, l’opposta ma incivilmente identica impostazione: i tredici anni di galera a quello sdoganatore di gente che porta malattie e ruba il lavoro agli italiani sembrano eccessivi solo a chi non capisce che l’immigrazione è un’emergenza effettiva, e che un cedimento giudiziario costituirebbe una rinuncia ad affrontarla.

Ma se tutto questo succede, e cioè se si oppone alla sentenza che assolve il persistere del pericolo mafioso e si giustifica tutta quella galera perché è funzionale a fermare l’invasione clandestina, è esattamente perché si reclama dall’amministrazione della giustizia l’esercizio di un ruolo che ad essa non compete, un ruolo di organizzazione e di polizia sociale che competerebbe ad altri e che essa ha usurpato con l’approvazione e persino con l’istigazione di quelle due opposte concezioni di malintesa giustizia.