Nulla ci sarebbe di più sbagliato del tentativo di mettere sul banco degli imputati, lasciato sgombro dagli uomini delle istituzioni, gli investigatori che hanno approntato e portato al suo epilogo il processo sulla cosiddetta Trattativa. Sarebbe un errore anche perché, in linea di mero principio, con loro dovrebbero essere chiamati a discolparsi i giudici di primo grado che, a Palermo, quell’ipotesi hanno non solo condiviso, ma addirittura proclamato come verità «al di là di ogni ragionevole dubbio». Il solo buonsenso porta a comprendere che non funziona così e che sarebbe bene mettere da parte liste di proscrizione, contumelie personali e disdicevoli ironie.

Tre gradi di giudizio hanno in sé il rischio del metronomo, della contraddizione, dell’antinomia. Dalla condanna all’assoluzione o viceversa. È normale che accada. È giusto che accada. Il paese dovrebbe uscire rassicurato dalla sentenza d’appello che conferma – a dispetto di campagne giornalistiche unilaterali contro alcuni imputati, assalti mediatici di vario genere, racconti incontinenti della obiettività – che i giudici non sono una falange o una coorte che organizza complotti e coltiva progetti eversivi. Malgrado, è vero, esponenti di spicco della magistratura, logge, corpuscoli affaristici, genuflessioni carrieristiche consegnino un’impressione del tutto diversa. Punto e capo, quindi. Sarebbe sciocco pensarlo. La ferita sanguina, il lacerante destino di servitori dello Stato stimati tra i migliori, dozzine di libri, articoli, interviste, reportage, manifestazioni di piazza costituiscono il lugubre corteo funebre che accompagna la sentenza di ieri e con le ceneri di questa cremazione collettiva occorrerà pur fare i conti da oggi in poi prima di disperderle frettolosamente al vento o metterle sotto un pesante zerbino.

Trarre un insegnamento se possibile. Settori di punta della magistratura italiana, segmenti importanti di essa, fortemente orientati ideologicamente, hanno sviluppato per decenni la cultura del processo, meglio delle indagini, come l’unico strumento capace di scoperchiare verità nascoste, di aprire armadi sigillati, di dischiudere nebbie fitte. Troppe investigazioni sono partite e partono senza un obiettivo preciso e si muovono nella convinzione che esistano solo verità apparenti; che per forza il male non può essere banale, ma ci sia un ordito a maglie fittissime da dipanare.

Un approccio che era, e resta, possibile grazie a una disponibilità quasi illimitata di mezzi e di uomini e che si sviluppa grazie al monopolio nell’uso della polizia giudiziaria, dei pentiti, delle intercettazioni. Tutti ambiti, si badi bene, in cui non sono mancate gravissime manipolazioni, rese possibili anche dalla costituzione di vere e proprie cordate investigative che si sono spostate coralmente da una Procura all’altra replicando azioni e deviazioni. Se sull’esito di un’indagine si giocano, insieme, le carriere di giornalisti, poliziotti, pubblici ministeri e giudici è evidente che il rischio che qualcosa vada per il verso sbagliato è dietro l’angolo.

C’è gente in buona fede e gente che lo è, come dire, un po’ meno. C’è chi costruisce a tavolino indagini da lanciare sulle prime pagine dei giornali e chi pazientemente dipana la propria matassa. Ma lo scenario di fondo resta lo stesso. Tutto è reso possibile dall’illimitata convinzione o dalla furbesca percezione che l’indagine possa anche non procedere dai fatti, ma si possa piuttosto piegare per avvalorare e dimostrare quanto si è prima deciso a tavolino che debba per forza esistere in natura da qualche parte. Un’esplorazione alla cieca nel cosmo e nella materia grigia o nera che lo occuperebbe. Un approccio non solo metodologicamente fallace e intellettualmente pericoloso, ma che sconta il prezzo enorme di essere incline a tagliare tutte le contraddizioni, annacquare tutte le aporie, sino a nascondere verbali, manipolare intercettazioni, stralciare atti, ammutolire pentiti distonici o, semplicemente, ignorare altri fatti.

Non dipende, in genere, dalla capacità o dall’onestà intellettuale di questa o quella toga, ma dal fatto che l’indagine (e talvolta compiacenti investigatori) si presta naturalmente ad assecondare la bulimia conoscitiva o anche solo le convinzioni ideologiche dell’inquirente. Inquisitio generalis la si chiamava un tempo. Mancando fatti precisi, per i fatti più gravi un orizzonte temporale di riferimento nel passato – e persino nel futuro attraverso il falò delle tesi avverse con la mistica di depistaggio – e senza finanche una dimensione spaziale di contenimento, l’inchiesta si nutre di convinzioni, mette in convergenza fatti diversi, riallinea geometrie sghembe e genera, alla fine, un risultato esteticamente apprezzabile da vendere mediaticamente. E si agglutina il consenso.

Tutta roba da correggere e profondamente. La riforma Cartabia, contenendo a esempio i tempi delle indagini, appresta un primo, marginale rimedio. Ma è chiaro che altri scenari e altre soluzioni si impongano. Da questo punto di vista il processo concluso a Palermo – insieme ad altri si badi bene – si offre in ogni caso – e a prescindere dall’esito in Cassazione – come l’occasione per una più profonda riflessione sulle spinte ideologiche, politiche, storiche e morali che muovono l’inchiesta penale e su come esse possano tradursi in imputazioni e sentenze. Un lavoro che compete agli storici, quelli veri, che vogliano ricostruire attraverso quali percorsi nel processo italiano (e in nessuna altra parte al mondo) si sia potuta innescare una tale deriva. Un’azione che spetta alla politica che dovrebbe uscire dalla logica delle tifoserie e rivendicare il compito di accertare verità che le prove non possono ormai raggiungere.