Cosa succede al Corriere? Ci sono così tanti ex giornalisti rossi lì che sembra di stare a via dei Taurini. E però di curiosità verso le contraddizioni che sempre avvolgono le grandi questioni di un mondo che oscilla pericolosamente tra guerra e pace neanche a parlarne. Conformismo a massicce dosi e solo una gara poco edificante tra le penne per stilare le più fantasiose liste di complicità con il putinismo.

I tamburi di guerra hanno così tanto rintronato le menti di chi scrive da rovesciare completamente l’auspicio antico del Migliore fino a trasformare talvolta il Corriere nell’Unità (stile anni 50) della borghesia: come in gran parte dei giornali, abbondano titoli strillati e parole militanti, denuncia di ogni minoranza che con il dubbio osa uscire dal coro dell’entusiasmo bellico. Perfino una penna di solito pungente, ma sempre con giudizio e ironia, come quella di Aldo Grasso (ed è un vero peccato) lucida gli scarponi e va allo scontro armandosi con i cascami della cultura del sospetto.

In un corsivo di prima pagina egli depone il fioretto che ben gestisce con una consueta gradevole prosa e brandisce una serie di personalità del giornalismo e della cultura sulle quali finisce per invocare l’ombra della riprovazione che spetta ai portatori di colpe inemendabili. Stupisce che un raffinato conoscitore della comunicazione ricorra allo stesso repertorio rustico di Riotta (e di altri compilatori di liste apparse sempre sul Corriere e altri fogli) e metta insieme i nomi più disparati (da Ritanna Armeni, castigata per una sua intervista proprio al Riformista, ad Angelo D’Orsi, colpito per qualche sua ospitata televisiva). Tra i reprobi, sospettati di inclinazioni rossobrune e di nostalgie per l’Unione Sovietica, il Corriere oltre al “professore mitomane” tanto amato dalla Rizzoli, anche una analista come Ida Dominijanni (critica teorica del sovranismo, indagatrice con le categorie della più aggiornata filosofia femminista dei simboli e dei desideri del potere).

Lo scivolamento nella tentazione di denunciare pubblicamente chi non mostra attaccamento al patrio suolo, in uno di quei momenti che evoca il compimento del destino supremo, è segno di una insidiosa mentalità che trasforma la disputa nel pensiero in un duello a forte carica demonizzatrice, secondo lo schema naturalistico amico-nemico. In un tempo che vede l’Italia precipitare in una situazione di quasi belligeranza e considera Putin come il carnefice, la bestia, insomma il nuovo Hitler, inquadrare qualcuno come un seguace del verbo putiniano non significa propriamente fargli un complimento. Anzi, incasellare un nome in una lista di obbedienza putiniana è quasi compiere una delazione a mezzo stampa per denunciare un complice del nemico, uno straniero in patria.

Se i colori hanno un senso, il nero appartiene saldamente alla Meloni e il rosso (facendo però una proibitiva capriola cromatica) a Letta: ad essere coerenti, sarebbero quindi loro, negli incontri e nelle simmetrie costruite negli ultimi mesi, i rossobruni, e però sono omogeneamente atlantisti, guerreschi. Ma, a parte le facili assonanze, trasferendosi da via Taurini a via Solferino molti giornalisti del Corriere hanno sepolto le idealità di un tempo. Dal repertorio più antico, e mai del tutto superato evidentemente, hanno però ripescato la categoria più squallida della sinistra novecentesca: il socialfascismo. Il rossobrunismo è, a tutti gli effetti, una imbarazzante variante della più sanguinolenta metafora degli anni Trenta. Peccato che anche Grasso, estraneo peraltro alle vicende della sinistra storica e quindi alle miserie dello stalinismo politico-culturale, maneggi certi arnesi contundenti che sarebbe bene consegnare all’oblio. Ma come attenuante a suo favore potrebbe esserci il clima cameratesco che si respira nella redazione dove, al posto dell’eskimo, c’è bella e pronta la mimetica e il bellicismo più spinto pare manifestare la definitiva malattia senile dell’ex comunismo romano.